26/05/10

Il piano straordinario contro le mafie: quali sono le intenzioni reali del Governo?

Di seguito il mio intervento di oggi.
Il testo del disegno di legge “Piano straordinario contro le mafie , nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia” contiene alcune misure utili sia sul versante del controllo degli appalti pubblici che , in particolar modo all’art 11, riguardo al tema dell’attività della malavita organizzata collegata ai traffici illeciti dei rifiuti”. Prima però di commentare l’art 11 e anche di sottolineare quali potrebbero essere i provvedimenti per contrastare efficacemente la malavita organizzata nel settore dei rifiuti, vorrei brevemente fare il punto della situazione nel nostro Paese.

Secondo l’ultimo rapporto Ecomafia a cura di Legambiente sono 25.776 ecoreati accertati, quasi 71 al giorno, 3 ogni ora. Circa metà dei quali (più del 48%) si è consumato nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa (Campania, Calabria, Sicilia e Puglia), il resto si spalma democraticamente su tutto il territorio nazionale. Il 2008 è l’anno dei record per le inchieste contro i trafficanti di rifiuti pericolosi, ben 25, con un fatturato che supera i 7 miliardi di euro. Tutti soldi accumulati avvelenando l’ambiente e i cittadini e frodando lo Stato. Anche il 2009 non è stato un anno felice: le vicende legate alla cosiddetta vicenda delle “navi a perdere” è ritornata di grande interesse. Servizi segreti, traffici di armi, traffici di rifiuti radioattivi, mafia, ndrangheta faccendieri fanno da sfondo a un periodo della nostra storia che si dipana attorno alla fine degli anni 80 – inizio anni 90, sicuramente tra i più misteriosi e inquietanti della storia d’Italia del dopoguerra. Ben tre Commissioni bicamerali hanno cercato e stanno cercando di avere risposte certe ad alcuni quesiti fondamentali: molti indizi, molte suggestioni, poche prove certe. Una situazione nazionale che vede una produzione di rifiuti urbani che cala ma solo a causa della crisi economica, un sistema di gestione industriale che non si sviluppa, un’Italia a tre velocità dove purtroppo al sud non si va oltre il 10% di raccolta differenziata, anzi in alcuni casi, vedi la Sicilia, addirittura non si raggiunge il 5%.
Il 31 dicembre 2009 è terminata ufficialmente l’emergenza campana, anche se l’emergenza non è risolta.

Rimangono molteplici questioni aperte: dai 6 milioni di tonnellate circa di ecoballe che rimangono dove sono, alla mancata costruzione di tre degli impianti di incenerimento previsti dai decreti e non realizzati, a una raccolta differenziata che più che a risolvere problemi rischia di diventare un altro business per il malaffare. Cosa dire poi dei Consorzi misti o pubblici per la raccolta dell’immondizia che nel casertano e nel napoletano sono infarciti di personale inadeguato e in numero assolutamente sproporzionato alle esigenze territoriali? Società che hanno bilanci improbabili, che hanno fatto della provvisorietà un elemento di certezza, quella di depauperare il bene e le risorse pubbliche.
A questo si aggiunga la situazione calabrese, che di fatto è ben lungi dall’essere risolta. Impianti non a norma, società miste di gestione fallite. Inceneritori che non vengono costruiti e assenza di raccolta differenziata. Impianti costruiti a metà e lasciati a marcire, depuratori insufficienti o più spesso installati e non collegati, aree da bonificare come la Pertusola di Crotone che costituiscono una seria minaccia ambientale e per la salute. Infiltrazioni della malavita più o meno organizzata a tutti i livelli e amministratori locali spesso collusi, se non protagonisti di tale sfacelo ambientale e gestionale.
La situazione siciliana. La grave situazione di carattere ambientale e sanitario che si è determinata a Palermo e Catania, ma anche nelle altre provincie siciliane, ha creato una situazione drammatica che deriva da un piano dei rifiuti regionale e un assetto organizzativo per la gestione completamente sbagliato. Un progetto che ha visto nella costituzione dei 27 Ato (ambiti territoriali ottimali) il fulcro del dissesto finanziario condito da un fallimento totale nella costruzione dei 4 inceneritori e della raccolta differenziata. In questa situazione di sfascio, in numerosi casi così, come accertato dal lavoro della Commissione bicamerale sulle ecomafie, si è inserita la mafia determinando situazioni di palese illegalità. A questo si aggiunga la situazione dell’azienda comunale Amia di Palermo, di cui una parte di amministratori sono oggetto di inchieste giudiziarie. Anche il Lazio sta attraversando un momento complicato nella sua programmazione e nell’attuazione di un piano commissariale dei rifiuti che ha obiettivi ambiziosi e forse poco raggiungibili. Numerose le inchieste giudiziarie in corso riguardo la gestione di impianti importanti come quello di Colleferro.
Così come la Lombardia, dove sul tema delle bonifiche dei siti contaminati è stata aperta un imponente inchiesta giudiziaria a carico di amministratori regionali di primo piano e che vede probabili infiltrazione mafiose.
In realtà l’emergenza rifiuti, invece che risolversi in Campania, si sta allargando ad altre importanti regioni così come la diffusione di attività collegate alle mafie.

A fronte di tutti questi problemi ci si domanda se sono stati messi in campo tutti gli strumenti legislativi e gestionali per cercare di risolvere una situazione che caratterizza fortemente in negativo il nostro Paese.
Sicuramente il recepimento della direttiva europea 99/2008 riguardo alla tutela penale dell’ambiente che prevede anche la responsabilità delle persone giuridiche sarebbe utile fosse operativa o attraverso un provvedimento ad hoc o in alternativa inserita dentro altri articolati di legge.
Anche l’introduzione della tracciabilità dei rifiuti (sistema SISTRI, per quanto tutto da sperimentare) è uno strumento utile , tra l’altro approvato nella finanziaria del 2007, e maldestramente proposto dal Governo, che ha spalmato su 3, 4 provvedimenti legislativi la sua applicazione. Lo stesso recepimento recente della Direttiva europea rifiuti può aiutare ad affrontare meglio gli aspetti illegali connessi alla gestione integrata dei rifiuti, ma nella lotta alle mafie in questo settore bisogna fare di più e in fretta.
Vi è la necessità di un maggior coordinamento fra le procure ordinarie e la Dda, un maggior coordinamento tra le forze di polizia giudiziaria, un potenziamento dei controlli preventivi attraverso un rafforzamento delle Agenzie ambientali regionali rendendo obbligatoria la presenza di ufficiali giudiziari .
Quindi siamo favorevoli a molte delle azioni che si trovano all’interno del provvedimento in discussione in particolare all’articolo che novellando l’art 51, comma 3 bis, integra con il reato di Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti la lista dei procedimenti per i reati di grave allarme sociale rispetto ai quali le funzioni di PM sono attribuite all’ufficio del PM presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente e la cui trattazione rientra nelle funzioni della Direzione distrettuale antimafia.

Ma rimane il rischio che l’attuale governo, attraverso provvedimenti legislativi contraddittori vanifichi i pochi successi ottenuti nella lotta contro i traffici illeciti e quindi contro le mafie. Si pensi ad esempio al tema delle intercettazioni telefoniche, che se impedite anche per reati minori daranno un colpo ferale alle indagini e alla capacità investigativa da parte dei soggetti preposti: tutti i magistrati e i vertici dei corpi investigativi, dalla finanza ai carabinieri, hanno lanciato un grave allarme e manifestato grandi preoccupazioni rispetto all’indebolimento di questo importante mezzo investigativo.
Forse sarebbe anche il caso di rivedere la normativa riguardo ai rifiuti speciali che oggi, lasciati a libero mercato come si evince dai dati , costituiscono non una risorsa ma un problema. Attendavamo con interesse la possibilità di lavorare insieme con la maggioranza per la revisione del Codice ambientale nelle Commissioni competenti ma purtroppo il Ministro non ha ritenuto affrontare questa discussione nelle commissioni competenti e quindi non sappiamo quali siano stati i principi ispiratori di questa complessa operazione che dovrebbe dare i suoi esiti il mese prossimo.
Quindi una situazione difficile, che necessiterebbe di risorse e strumenti del tutto straordinari attraverso un coinvolgimento delle tante realtà sane e importanti presenti nel nostro Paese, che potrebbero dare un contributo determinante per risolvere una volta per tutte l’emergenza dei rifiuti in Italia e per togliere importanti flussi finanziari alle mafie.
La domanda che ci si pone, verificando quello che succede tutti i giorni, è se veramente vi sia l’intenzione da parte di questo Governo di portare a ordinarietà la gestione dei rifiuti o se troppi e incontrollati sono ancora gli interessi che ruotano attorno a un mercato parallelo e che impediscono di fare dell’Italia un Paese normale.

22/05/10

La green economy: la proposta del PD

Di seguito il testo del documento presentato alla Assemblea nazionale Pd che si è conclusa oggi a Roma.
Qui anche la sintesi della discussione.

L’economia verde è l’unica vera opportunità per uscire da due grandi crisi, quella climatica e quella economica, per lasciare un mondo vivibile alle generazioni future, per costruire sviluppo e creare nuovi posti di lavoro tenendo conto del vincolo delle risorse naturali. L’economia verde è quindi una via di sviluppo che può consentire di rilanciare su basi nuove e più solide l’economia che non può tornare su precedenti modelli di crescita alimentati a debito e con un consumo insostenibile di risorse naturali. Nel nostro paese l’economia verde si incrocia con la qualità, la coesione sociale, la ricchezza dei territori; un incrocio che può rendere più competitive le nostre imprese e che è alla base della forza del nostro paese. L’economia verde incrocia trasversalmente ogni settore produttivo, ha i suoi cardini nel risparmio energetico, nell’efficienza energetica, nell’uso di fonti rinnovabili di energia, nelle tecnologie e nelle innovazioni che riducono l’impatto ambientale dei processi produttivi e può applicarsi all’edilizia come alla meccanica, alla chimica come all’agricoltura, al tessile come al turismo di qualità. La scelta della sostenibilità ambientale nei processi produttivi può andare di pari passo a scelte di consumo responsabile, per rendere minimo l’uso di risorse naturali anche nei nostri acquisti di ogni giorno con una preferenza ad esempio per i prodotti locali o per quelli con imballaggi minimi. Dunque, una prospettiva solida per l’Italia fondata sulla qualità e sul valore del made in Italy, sulla ricerca, sulla conoscenza, sulla bellezza dei nostri territori, sulla nostra storia, sulla ricchezza del nostro ambiente.

19/05/10

Su SKY

Sulla qualita' dell'aria. In diretta stasera alle 21. Canale 860.

14/05/10

E lunedì il nucleare a Masi Torello


Qui il programma

Le proposte del Pd regionale per la green economy

Oggi insieme ad Stefano Bonaccini e a Marco Lombardelli abbiamo presentato, in conferenza stampa, le proposte del Pd dell'Emilia-Romagna sulla green economy, che saranno disponibili dal pomeriggio sul sito del Pd regionale .

13/05/10

Nominato

Il Segretario Bersani, su indicazione della Responsabile Stella Bianchi, mi ha nominato Responsabile nazionale delle politiche per la gestione dei rifiuti, all'interno del Dipartimento Ambiente del PD nazionale.
E' sicuramente un privilegio seguire le politiche della gestione dei rifiuti nel paese per il Pd. Attraverso al rapporto che i cittadini e le comunità hanno con i rifiuti si legge il Paese. La responsabilità individuale, il rispetto della legalità, il rispetto dell'ambiente, l'attenzione alla salute sono tutti elementi che descrivono il livello di civiltà di una nazione.
Ringrazio Bersani anche se il compito che mi spetta sarà arduo e spero di dare contributo alla costruzione di politiche virtuose e in linea con i Paesi più avanzati.

Rifiuti: in Campania l'emergenza non è mai finita

(DIRE) Roma, 13 mag. - "L'avevamo detto da tempo, l'emergenza rifiuti in Campania non e' mai finita". Lo dice Alessandro Bratti, capogruppo Pd nella Commissione parlamentare sulle Ecomafie dopo due giorni di audizioni svolte a Caserta. "E' evidente il fallimento della provincializzazione della gestione dei rifiuti voluta testardamente da questo governo- dice Bratti- non sono state realizzate ancora le societa' di gestione della Provincia di Napoli e Caserta e queste si dovranno accollare impianti in gran parte sotto sequestro dalla magistratura e personale in esubero che non potra' essere pagato".
Una situazione che "potra' sfociare in gravi tensioni sociali", avverte il democratico. "Che dire poi- continua-dei 4 impianti di incenerimento dei decreti Bertolaso nemmeno progettati? A questo si aggiunga una situazione ambientale riguardo alle qualita' delle acque superficiali e di falda di grande allarme a causa del mancato funzionamento dei depuratori e dalla presenza di innumerevoli scarichi abusivi. Cosa ha intenzione di fare il governo a proposito? Chiederemo al piu' presto un'informativa in Aula del ministro all'Ambiente".

08/05/10

Franceschini: Bravissimo Walter, noi chiediamo cambio passo

"Per amore del partito, non per minacciare una scissione"

Cortona (Ar), 8 mag. (Apcom) - L'intervento di Walter Veltroni al convegno di Area democratica piace a Dario Franceschini. In un messaggio su 'twitter', il capogruppo Pd alla Camera scrive: "Bravissimo Walter a Cortona. Area democratica chiede un cambio di passo per amore verso il partito che abbiamo fondato, non per minacciare una scissione".

07/05/10

In blu e grigio

Scenari elettrici post-crisi al 2020 e 2030 è il titolo del Rapporto della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, presentato ieri presso la sede GSE a Roma. Questa è la relazione di sintesi della presentazione che potete trovare qui
1. La crisi promuove cambiamenti
Con la recessione economica del 2008-2009 e con lo sviluppo del risparmio e dell’efficienza energetica lo scenario della domanda di elettricità nei prossimi due decenni è profondamente cambiato. Mentre nel decennio pre-crisi 1997-2007 l’energia elettrica richiesta alla rete è aumentata del 25% (passando da 271,4 a 339,9 TWh , con un aumento di ben 68,5 TWh) , nel solo 2009 il calo dell’energia elettrica richiesta alla rete è stato del 6,7% ( e cioè di ben 22 Twh in meno del 2008 , con una discesa a 317,6 TWh) .
Dall’analisi dei consumi elettrici settoriali sembrerebbe che la crisi abbia promosso una riduzione non solo congiunturale dei consumi: alcuni cambiamenti virtuosi avvenuti sia nei processi produttivi sia nei comportamenti dei consumatori appaiono, infatti, già in embrione prima della crisi, con forti probabilità di crescita e sviluppo anche successivamente ad essa.
Lo studio ipotizza due scenari elettrici per il 2020 e il 2030:

• nello scenario grigio (di peggioramento dell’efficienza elettrica) la crescita del consumo di elettricità sarebbe comunque minore di quella del decennio pre- crisi, pur essendo superiore ai 50 TWh per ogni decennio;
• nello scenario blu (di miglioramento dell’efficienza elettrica) - il più probabile dopo la crisi- l’incremento dei consumi di elettricità sarebbe più che dimezzato, con una crescita di circa 50 TWh dal 2010 al 2030 e col ritorno ai consumi
elettrici pre-crisi (2007) solo nel 2020 .

2. Le fonti rinnovabili sono decollate anche in Italia e cresceranno anche dopo il 2020.

Mantenendo il trend di crescita in atto, le fonti rinnovabili raggiungeranno nel 2020 la
produzione di circa 107 TWh (oltre il 30% dell’elettricità consumata) in linea con
l’attuazione della Direttiva 2009/28/CE .

Lo sviluppo delle rinnovabili potrebbe poi , secondo lo scenario avanzato delineato dalla
DG Energia della Commissione UE, raggiungere in Italia 167 TWh nel 2030, che nello
scenario blu del nostro studio corrisponde al 45% dell’elettricità consumata.

3. Senza un impegno per l’efficienza energetica non si raggiungeranno gli obiettivi
europei di riduzione delle emissioni .

Uno degli effetti della crisi economica è stato quello per cui il settore elettrico ha quasi
raggiunto l’obiettivo di Kyoto: le emissioni di Co2 sono scese nel 2009 del 5,5% rispetto
al 1990.

Per il 2020 e 2030 le emissioni di CO2 al 2020, nello scenario grigio , aumenterebbero
dell’1,6% rispetto a quelle del 1990 e diminuirebbero solo del 10,3% rispetto a quelle
del 2005. Ciò conferma che senza un impegno per l’efficienza energetica, anche con un
aumento delle rinnovabili, non si potrebbero raggiungere gli obiettivi europei di
riduzione delle emissioni (- 20% ,entro il 2020 , rispetto al 2005).

Nello scenario blu invece la riduzione delle emissioni di CO2 al 2020 è in linea con la
Direttiva ETS, con una riduzione di circa il 20% rispetto a quelle del 2005 . La
riduzione proseguirebbe anche al 2030, di oltre il 26% rispetto al 2005.

4. In entrambe gli scenari non c’e’ domanda aggiuntiva per nuove grandi centrali
nucleari, almeno fino al 2030.

Nello scenario grigio il fabbisogno di potenza elettrica al 2020 per fornire l’elettricità
richiesta alla rete sarà di circa 76 GW. Tenendo conto del fatto che sono già in
costruzione nuove centrali termoelettriche convenzionali per circa 5,2 GW (che saranno
terminate entro il 2011) e che la potenza efficiente lorda nel 2008 era di 76 GW , anche
con qualche dismissione non ci saranno problemi di potenza disponibile al 2020.

Nel 2030 il fabbisogno di potenza elettrica, sempre nello scenario grigio, sale a circa 87,6
GW : con gli ulteriori 1,2 GW già autorizzati e non ancora in costruzione e gli altri 4,75
GW con progetti definiti ed in fase avanzata di autorizzazione si coprirà
completamente il fabbisogno di potenza.

Nello scenario blu, invece, con le nuove centrali ormai in fase avanzata di costruzione (e
che entreranno in esercizio entro il 2011 per circa 5,2 GW) fino al 2020 continuerebbe
ad esservi un eccesso di potenza installata: servirebbero 70,6 GW e ne abbiamo già 76.
Solo nel 2030 si arriverebbe ad un fabbisogno di potenza elettrica installata di 77 GW.
Quindi, nello scenario blu, occorrerà rivedere , rinviare o annullare la costruzione di
nuove centrali termoelettriche convenzionali già progettate e in fase avanzata di
autorizzazione, e probabilmente la minore domanda di energia elettrica e l’entrata in
esercizio di nuove centrali anticiperà la dismissione di alcuni vecchi impianti.

In tutti e due gli scenari del dopo-crisi, comunque, non si rileva una domanda elettrica
aggiuntiva , almeno fino al 2030, che giustifichi nuove grandi centrali nucleari, la cui entrata
in esercizio comporterebbe o la chiusura anticipata di centrali termoelettriche
convenzionali ancora efficienti e/o la riduzione dello sviluppo delle fonti rinnovabili.

5. Scenari tecnologici: puntare sulla CCS

Per quanto riguarda le opzioni tecnologiche per i futuri scenari, nel settore dell’energia
elettrica , sono in campo:

• le innovazioni per l’ efficienza energetica,
• le tecnologie per lo sviluppo delle fonti rinnovabili,
• le tecnologie di cattura e sequestro della CO2 (CCS),
• il nucleare.

Pare difficile, e non consigliabile, ad un Paese come l’Italia, di percorrere tutte e
quattro queste opzioni entro il 2030.

L’efficienza energetica e le rinnovabili sono opzioni già in atto che sarebbe
assolutamente controproducente rallentare: l ’efficienza è già oggi l’opzione
economicamente più conveniente e lo sviluppo delle rinnovabili, entro il prossimo
decennio, avrà un forte impulso tecnologico e potrebbe diventare una delle attività
trainanti anche delle esportazioni.

Restano quindi in discussione o la scelta nucleare o la produzione di elettricità con
centrali a carbone dotate di impianti di cattura e di sequestro della CO2.
Percorrerle entrambe, per un Paese dotato di limitate risorse finanziarie e tecnologiche
come l’Italia significa concludere poco in entrambe e giocare quindi solo un ruolo di
appendice di altri Paesi.
Per il 2020, e per il decennio successivo, converrebbe sviluppare e applicare la cattura
e sequestro della CO2 : una tecnologia matura per il sequestro e che sta avendo
sviluppi importanti per la cattura. Una tecnologia innovativa , con grandi potenzialità
di sviluppo, con la quale non partiremmo in ritardo e alla coda di altri, come per il
nucleare , ma dove potremmo essere fra i primi al mondo .

Abbiamo visto la stella e non possiamo fermarci

Cortona, 7 maggio 2010,
Relazione introduttiva di Dario Franceschini

Pochi giorni fa Ulrich Beck ha ricordato a tutti noi la regola fondamentale della società mondiale del rischio: non lasciare mai che un rischio globale passi senza sfruttarlo, poiché si tratta sempre di un’occasione di fare qualcosa di grande.

Beck parlava della Germania di fronte alla crisi europea. Ma quella regola vale più in generale.

Del resto, quante volte ci siamo detti, che dopo la grande crisi globale di questo fine decennio, nulla sarebbe stato più come prima?

Quante volte abbiamo ripetuto che saremmo usciti da questa tempesta profondamente cambiati.
L’economia, ma anche i modelli culturali, gli stili di vita, il modo di consumare e di rapportarci all’ambiente. Le relazioni sovranazionali e quelle tra comunità.

Insomma, ci siamo detti certi che quello che sarebbe uscito dalla grande crisi sarebbe stato un mondo nuovo.

Abbiamo davvero pensato alla crisi come ad una straordinaria opportunità di cambiamento
.

Questa speranza era autorizzata e resa più concreta dall’apertura di una nuova stagione americana, con l’elezione di Obama alla Casa Bianca.

Dobbiamo chiederci, due anni dopo, cosa sia rimasto di quella speranza.

Le cose purtroppo non sono andate come speravamo ma c’è ancora tempo per trasformare i rischi in opportunità, se la politica saprà rischiare e guardare lontano.

L’opposto di quello che purtroppo sembra stia avvenendo in questo secondo tempo della crisi globale.

E’ legittimo farsi alcune domande.
Possono ancora riuscire i governi a dare una risposta a quella forte domanda di istituzioni sovranazionali capaci di dettare regole alla globalizzazione?

Ci si può rifugiare dentro i confini politici, in un mondo in cui non ci sono più i confini economici?

E’ possibile che alcune agenzie private americane di rating, con le loro valutazioni cambino il futuro di intere economie e di milioni di persone? E che questa avvenga perchè colmano un vuoto di istituzioni internazionali.?

Basti riflettere sulla crisi europea, sul vuoto di una vera dimensione sovranazionale, pagato di nuovo in questi giorni.

Basti pensare alla drammatica lentezza e incertezza con cui l’Unione Europea ha affrontato la crisi della Grecia, all’assenza di leader in grado di mettere a rischio anche la propria leadership in nome di un obiettivo nobile e lontano.


Purtroppo, ancora una volta la destra è apparsa più veloce e flessibile nel rispondere al cambio di fase.
Era già accaduto negli anni Ottanta e Novanta, quando il pensiero neo-conservatore e ultraliberista, fondato sul mito di una crescita infinita finanziata dal debito, ha dominato quella stagione, segnata dal predominio dell’economia sulla politica, dalla competizione sui mercati sempre più aggressiva, fino a travolgere limiti e regole.

Sono stati, non a caso anche nel linguaggio, gli anni della deregulation.

La destra, dobbiamo riconoscerlo, ha saputo leggere e interpretare meglio di noi quella fase della modernità.

Ha messo in campo un modello culturale che in un tempo post-ideologico, segnato dalla crisi dei grandi soggetti collettivi a forte identità, come partiti e sindacati, ha puntato tutto sulla dimensione individuale, a scapito della coesione sociale e della solidarietà.

La crisi globale ha messo in discussione molti degli assunti su cui si reggeva quella ipotesi. Ma il camaleonte è stato pronto a cambiare colore.

In un tempo che resta segnato dal conflitto e dominato da insicurezza e paura del futuro globalizzato, la destra ha trovato una sua nuova versione, rassicurante e difensiva, dentro gli stati e degli stati nel mondo globalizzato.

Offre protezione contro le paure del nostro tempo. Rinuncia a trasformarle in opportunità, rinuncia al ruolo della politica, che deve essere sempre quello di guidare i grandi cambiamenti, non di demonizzarli o sfuggirli per raccogliere consenso.
Ma il consenso, cinicamente, purtroppo lo incassa, e i progressisti invece non lo incasseremo mai se non proveranno a sfidare la destra sui valori, smettendo di inseguirla soltanto.

E anche la destra italiana si è andata riorganizzando su quella nuova versione rassicurante.

Dal berlusconismo eticamente anarchico alla ristrutturazione tremontian-leghista, che rielabora la tradizione in salsa padana e costruisce una rete di protezione fatta di chiusure e conservazione.

In tempo di crisi non c’è spazio per i buoni sentimenti: ognuno sia
padrone a casa sua.

Il messaggio è forte, molto più del tanto celebrato radicamento leghista.
E infatti la Lega vince perché è capace di mobilitare gli elettori attorno a parole d’ordine chiare ed efficaci anche là dove non è presente con una sua organizzazione territoriale.
L’avanzata in Emilia Romagna, in Toscana, e perfino nelle Marche e in alcune zone del Lazio ha questo segno: la forza brutale con cui si sostituiscono gli interessi ai valori, le paure alle speranze.

Questa trasformazione del profilo dominante della destra produce una frattura profonda.

Molto più profonda di quanto non abbiamo finora capito.

In questo senso lo scontro in atto nel Pdl non deve essere sottovalutato.

Non è soltanto una lotta di potere tra personalità ormai incompatibili. Vengono al pettine nodi intricati: l’unità nazionale, il tema di una lealtà costituzionale faticosamente conquistata nell’allontanamento dalle radici post-fasciste, l’impossibilità di ridurre la vita democratica di un partito ai diktat di un comandante in capo.

Gianfranco Fini pone questioni molto serie, alcune delle quali riguardano la sua storia politica e la sua credibilità personale. Altre la qualità e il futuro della nostra democrazia.

Per questo trovo stucchevole allungare la discussione sul come questo terremoto in atto a destra ci riguardi.
Perché è ovvio che non possiamo essere indifferenti o disinteressati.
Ma dovrebbe essere altrettanto ovvio che il nostro interesse non si misura sulla possibilità di fare di Fini un alleato.
Fini è e resterà un nostro avversario, ma assomiglia a quella destra costituzionale e europea di cui il paese avrebbe bisogno.
E lo aspetta un cammino difficile, perché il berlusconismo ha messo radici profonde in questi vent’anni e come tutti i fenomeni che hanno dentro pulsioni autoritarie, diventano più pericolosi nel momento del declino, non tollerano i dissensi.

Lo spettacolo deprimente di questi giorni, il degrado dei comportamenti di pezzi così rilevanti della classe dirigente del governo e della destra, sono i sintomi di un sistema di potere che sta crollando, travolto dal proprio sentimento di immunità e onnipotenza.

Ma, proprio per questo, le settimane e i mesi che ci aspettano saranno carichi di rischi e di tensioni.
Perché i colpi di coda finali sono sempre i più pericolosi, e noi dobbiamo impedire che vadano a segno.

Mi viene da sorridere quando ricordo le accuse che mi hanno fatto da segretario, che ci hanno fatto, anche dentro il partito, di troppo antibelursconismo.
Difendere lo stato di diritto, il parlamento, la costituzione, i principi di legalità, le intercettazioni come strumento per contrastare il crimine, difendere i valori più sani della società italiana non è antiberlusconismo: è il primo dovere del partito democratico, il debito che noi abbiamo nei confronti delle generazioni che ci hanno preceduto, quelle che ci hanno consegnato diritti e libertà da custodire, rinnovare e tramandare alle generazioni che verranno dopo di noi.

Adesso che quella stucchevole accusa è stata seppellita dal periodico riemergere della violenza verbale e istituzionale di Berlusconi, possiamo tutto, spero finalmente tutti, riconoscere che preparare l’alternativa significa, allo stesso tempo, prepararsi sui contenuti riformisti per tornare a guidare il paese e anche contrastare con durezza questa destra.
Ogni giorno, non una settimana sì e una no a seconda dei sorrisi e degli ammiccamenti ricevuti.

Difendere la democrazia e cambiare profondamente il paese.

La prima cosa è una condizione per poter realizzare la seconda, per poter portare avanti la missione attorno a cui è nato il Partito Democratico: abbattere barriere, paure, immobilismi, prudenze di un paese bloccato, vecchio, impaurito e cambiarlo profondamente.

Solo una ragione così forte ed esigente può sorreggere un’ambizione così alta, quella che ci ha spinto a superare vecchie divisioni e antiche contrapposizioni per farci nascere.

Il Partito Democratico o mantiene questa sua vocazione, fatta di coraggio e innovazione, o lentamente si spegne.

I partiti che ci siamo lasciati consapevolmente alle spalle, potevano stare assieme per la forza dell’organizzazione o per l’orgoglio di una storia comune, di una identità forte.

A un partito giovane e plurale, nato in una società senza le ideologie del 900, queste cose non possono più bastare per stare insieme.

Solo una missione ambiziosa e coraggiosa di cambiamento può farlo vivere.

Per questo non dobbiamo dimenticare mai di essere un partito nato per avere dentro le speranze e le attese della società italiana nel suo complesso, senza antichi ed esclusivi blocchi sociali di riferimento, senza delegare a nessuno la rappresentanza di interessi, ceti o segmenti elettorali, verso il centro o verso la sinistra.

Un partito nel quale questa pluralità non sia un insieme di recinti piccoli e grandi, ma una costante ricerca di una nuova sintesi culturale.

L’abbiamo detto tante volte durante le primarie e questa cosa diventa ancora più importante adesso: dentro il partito mai una identità deve prevalere sulle altre e le regole e lo statuto devono impedire che questo avvenga.

Non c’è nulla di più pericoloso del senso di estraneità. Nulla di più pericoloso che qualcuno non si senta più nella casa comune, ma ospite in casa altrui.

Il partito non è fatto da qualcuno che ha vinto, che concede generosamente il diritto di tribuna a chi ha perso.
Il partito è di tutti, di chi ha vinto e di chi ha perso insieme.

So che queste cose le pensano come noi Ignazio Marino e le persone che l’hanno votato, e per questo lo ringrazio di essere qua oggi, perché penso potremo fare molte cose insieme per il bene del Pd.

Dunque un partito di tutti.

Per questo lo abbiamo costruito con la nostra gente, attraverso le primarie, occasione unica per saldare la forza dei militanti e la speranza e le attese dei nostri elettori.

E per questo, voglio dirlo con molta chiarezza anche alla vigilia di possibili modifiche statutarie all’Assemblea del 21 e 22, le primarie per scegliere il candidato della coalizione con cui ci presenteremo alle prossime elezioni politiche, sono irrinunciabili.

Le primarie non sono uno strumento qualsiasi: sono un pezzo della nostra ragione sociale, sono un modo di interpretare l’esigenza di apertura alla società senza cui i partiti si rinchiudono e si rinsecchiscono.

Per questo non si può affidare al veto di uno qualsiasi dei partiti di una futura coalizione la possibilità o meno di fare le primarie: chi vuole stare in coalizione con noi deve sapere che alle primarie per la scelta del candidato comune noi non possiamo rinunciare e noi non rinunceremo mai.

Abbiamo lavorato per far nascere questo Pd e abbiamo difeso questa idea di partito nell’ultimo congresso.

Ci siamo impegnati nei territori, con le primarie e dopo, con la nascita di Area democratica, per evitare il pigro ritorno a un tranquillo passato.

Non è tempo di ordinaria amministrazione e di tranquillità.
Viviamo un tempo che richiede visione e coraggio.

Servono certo la macchina organizzativa, il partito solido, il radicamento.
Ma non basterà tutto questo, non basteranno il partito solido o la macchina organizzativa più potente possibile se non trasmetteremo il senso di una missione di cambiamento del paese per cui vale la pena spendersi, per cui vale la pena rischiare e mettersi in gioco.

Purtroppo dalle elezioni politiche del 2008 in poi, da quando è sembrato che si smarrisse la spinta propulsiva delle primarie del 25 ottobre e che inesorabilmente tornassero vizi e pigrizie, abbiamo perso grande parte di quelle energie fresche ed entusiaste, sia tra gli elettori che tra i militanti, che avevano creduto in un partito nato per cambiare tutto

Ci sono state due ultime fiammate di ritorno: nella campagna elettorale delle europee, aiutati dalla paura che tutto fosse inesorabilmente perduto, e nel confronto delle ultime primarie.
Ma sempre dentro un misto di rassegnazione e disincanto che, se non corretto presto, può diventare irreversibile.

E’ sbagliato dire che oggi nei nostri circoli è sempre più difficile trovare persone che non provengano dai Ds o dalla Margherita?

Se siamo qui, se scommettiamo ancora sul progetto originario così come lo abbiamo sognato, è perché siamo convinti che il Pd o è davvero un partito nuovo, capace di andare oltre la semplice addizione delle storie e delle identità precedenti, oppure è destinato ad un rapido tramonto
.
Nessuno si avvicinerà entusiasta se gli spieghiamo che il nostro progetto per i prossimi anni è soltanto quello di sommare sigle e partiti di ogni tipo per vincere le prossime elezioni.

Dopo il congresso non ci siamo sottratti alle nostre responsabilità.

Abbiamo accettato di partecipare a quella che è stata definita una gestione plurale del partito, anche sulla base della consapevolezza delle difficoltà di fronte a noi.

E soprattutto convinti della necessità di evitare ad un partito ancora fragile quella malattia che ha rappresentato storicamente il virus più pericoloso per il centrosinistra: l’autolesionismo.

Abbiamo tenuto questa posizione con la più limpida lealtà, collaborando con la nuova segreteria, avanzando le nostre osservazioni critiche nelle sedi proprie del partito, mai offrendo spunti per polemiche esterne. Anche quando forse ce ne sarebbe stata ragione.

Con la stessa lealtà oggi diciamo che è necessario un cambio di passo non solo nella gestione, ma nel modo di essere del Pd.

Servono segni coraggiosi di rinnovamento dei gruppi dirigenti dove le cose sono andate male.
Prendo un esempio per tutti: il partito della Calabria.
Un partito dilaniato, che ha visto ridotti di due terzi in propri voti in due anni, già diviso nel nuovo Consiglio regionale, con militanti in fuga. Penso che servirebbe commissariare subito il partito regionale, con una personalità di grande autorevolezza, capace di ricostruire investendo su energie nuove.

Non si può far finta che non sia successo nulla, non si possono ignorare i segnali che i nostri elettori ci hanno dato in tutto il paese alle ultime regionali.

Abbiamo perso le elezioni. Non perché per poche migliaia di voti non abbiamo conquistato due regioni in bilico. Ma perché abbiamo registrato una grave emorragia di consensi in termini assoluti. Più di quattro milioni di voti dalle politiche del 2008, più di un milione dalle europee dello scorso anno. Siamo al punto più basso della nostra brevissima storia.

Non mettiamo questa grave sconfitta sul conto di nessuno, ma chiediamo che l’analisi della sconfitta sia rigorosa e approfondita e sgombri il campo ad alcuni equivoci pericolosi che hanno messo a rischio il progetto.

Non ci sono scorciatoie per risalire la china.

L’alternativa sarà possibile solo attorno ad un Partito democratico attrattivo e innovativo.

Non userei l’aggettivo sexy, che mi sembra più adatto alle categorie berlusconiane.

Direi semplicemente un partito capace di entrare in sintonia con quella parte del paese che crede nella possibilità di un futuro diverso.
In sintonia con quei milioni di Nuovi Italiani che hanno fiducia in se stessi e nelle potenzialità del proprio paese, che non vogliono rassegnarsi al declino, alla perdita di valori e di rigore morale, che non ne possono più di dividersi sul passato e su vecchi spartiacque ideologici.

Questo è il tempo di un riformismo coraggioso.
Perché senza coraggio non ci può essere cambiamento.

E sappiamo tutti che nessun cambiamento vero può essere indolore.

E mi chiedo: se non ora, quando verrà il momento del coraggio riformista?

Se non ora che siamo all’opposizione, che non abbiamo congressi, che non abbiamo il problema di tenere unita una coalizione o tenere in piedi un governo, che non abbiamo campagne elettorali vicine. Se non ora, quando?

Quando dimostreremo di voler cambiare davvero questo paese, la forza di scontrarci con poteri e interessi forti, di rimettere in discussione tutto, anche ciò che per i nostri mondi di antico riferimento è comodo e rassicurante?

Se non ora, quando?

La destra ha messo in campo la sua riconversione.
Di fronte alla crisi alimenta le paure e promette protezione.

Sappiamo che è una politica illusoria, senza prospettive, che tutelerà pochi e lascerà soli i più, che si fonda sull’idea di un nemico da cui difendersi, a costo di inventarselo.
E’ il conflitto la cifra che la contraddistingue: Nord contro Sud, garantiti contro non garantiti, anziani contro giovani.
.
Eppure, nella sua falsità, è un messaggio tranquillizzante e molti hanno l’illusione di potersi trovare dalla parte di chi vincerà e sopravviverà.
E intanto crescono le ingiustizie, le disuguaglianze, le distanze tra ricchi e poveri. Ma di tutto questo non c’è percezione.

Allora noi dobbiamo avere la forza di sfidare apertamente questo inganno, questa politica illusionista.

Ma per farlo dobbiamo cambiare prima noi stessi.

Non possiamo dare l’impressione di essere quelli che giocano solo in difesa, nemmeno aspettando la possibilità di un contropiede, ma sperando solo in un autogol degli avversari che ci faccia vincere.

Noi difendiamo tutto.
Sempre battaglie nobili e giuste ma difendiamo sempre: la Costituzione, l’articolo 18, la stampa, l’autonomia della magistratura, i sindacati, il parlamento e così via.

Non dobbiamo rinunciare a queste battaglie, ma o riusciamo a spiegare che noi siamo nati non per difendere l’esistente ma per cambiare il paese o non avremo più con noi le truppe per vincerle, quelle battaglie nobili.

Il primo e più delicato banco di prova è il terreno istituzionale.


Sappiamo quanto sia difficile e stretta la strada delle riforme, e quanto inaffidabile il fronte dei nostri interlocutori, a cominciare dal presidente del consiglio, sempre oscillante tra la disponibilità al confronto e la tentazione del colpo di mano a secondo della convenienza del momento.

E tuttavia sappiamo anche che ammodernare e rendere più efficienti le nostre istituzioni è una responsabilità che abbiamo tutti di fronte al paese e al suo futuro. Un futuro che dobbiamo saper misurare oltre gli attuali equilibri contingenti.

In altre parole: non possiamo costruire il modello istituzionale che serve all’Italia in funzione del berlusconismo o dell’antiberlusconismo.

Partiamo da una altra domanda: come rendere più efficiente la nostra democrazia.

Oggi il problema non è più, come vent’anni fa, la stabilità del governo.



Oggi le questioni sono altre: il rapporto governo-parlamento è squilibrato a tutto vantaggio del governo, che attraverso i maxi emendamenti, la fiducia, le ordinanze di protezione civile, l’abuso di decreti, ha svuotato il parlamento.

Il problema che oggi il paese ha di fronte è quello di avere una democrazia che decide, ma che resti democrazia, garantendo la divisione e l’equilibro tra i poteri.

La nostra proposta à semplice, coerente con la storia costituzionale italiana, in grado di sfatare l’idea che solo l’elezione diretta può risolvere tutto.

5 punti:

1. Una sola camera che fa le leggi e dà la fiducia al governo.
2. Un senato federale e delle autonomie e una conseguente riduzione del numero dei parlamentari.
3. Più poteri di controllo per il parlamento, con corsie preferenziali per il governo e garanzie per l’opposizione.
4. Più poteri al Presidente del Consiglio nell’azione di governo ma accompagnati da una legge rigorosa sui conflitti di interesse.
5. Una legge elettorale che spinga al bipolarismo e che restituisca agli elettori il diritto di scegliersi gli eletti, tornando ai collegi uninominali.

Quindi, preciso meglio: no ad una legge elettorale come quella tedesca, che porti di fatto alla fine del bipolarismo ed al ritorno ad una stagione di maggioranze variabili e no ad un ritorno alle preferenze che, diciamolo con chiarezza, portano, inesorabilmente, a costi altissimi delle campagne elettorali con tutti i rischi di corruzione connessi, a differenza dei collegi uninominali che invece vogliamo.

Cambiare l’Italia, non difenderla dai cambiamenti.

Le parole della nostra cultura democratica sono grandi e impegnative.
Ma spesso è come se il loro contenuto fosse evaporato.
Vanno riempite di significato.
Vanno nutrite di idee nuove.
Vanno rese corrispondenti alle domande nuove, all’emergere di nuovi diritti, alle attese di nuove generazioni.

Dobbiamo chiederci, ad esempio, come sia potuto avvenire che la parola libertà sia pian piano diventata parola della destra.

Dobbiamo riappropriarcene.

Un giovane nel nostro Paese può sentirsi effettivamente libero?
Il suo destino, il suo futuro sono effettivamente nelle sue mani?
Il suo futuro dipende dalle sue capacità, dalla sua buona volontà? Dipende dal successo che avrà negli studi?
Dipende dalla sua intelligenza, dalla sua creatività?

Sappiamo che non è così, che drammaticamente non è così.

Sappiamo che la società italiana è sempre più bloccata.
Sempre più ingiusta. Sempre più prigioniera di privilegi, di protezioni ereditate, di incrostazioni che la rendono immobile da troppi anni.

Forse è addirittura inutile parlare di ascensore sociale, perché è come se ricchi e poveri, garantiti e non garantiti non abitassero più nello stesso edificio.
Salire è impossibile. Al massimo si può entrare. E si entra se si è figlio di…, nipote di…, amico di…
Se si fa parte di una cricca o se si è utili ad essa.

Questo è in fondo il modello sociale dell’Italia di Berlusconi: fai strada se sei spregiudicato, furbo e arrogante.

La nostra Italia deve essere diversa: dimostriamo ai giovani che l’arma per farsi valere è il loro talento.

Chiediamoci perché i nostri ragazzi, quelli che possono farlo, vanno a cercare all’estero lo spazio della loro crescita professionale?
E perché quando sono fuori dai nostri confini raccontano di aver trovato società vive, dinamiche, multietniche e di avere respirato per strada libertà e il futuro, non paure e tristezza come da noi?

Perché siamo una società bloccata, priva di mobilità sociale e territoriale.

I nostri giovani in molti casi hanno più talento dei loro coetanei di altre nazionalità.
Investiamo su di loro, sulla loro formazione. Facciamogli girare il mondo, creiamo le condizioni perché sia valorizzato chi merita.

Noi dovremmo puntare su tutto ciò che schioda l’immobilismo e crea aperture e mobilità.

Faccio solo alcuni esempi.

Perché non immaginare un anno di Erasmus obbligatorio all’estero durante il percorso formativo?
Perché non investire risorse per chiamare studenti stranieri in Italia, in particolare nelle Università del sud, che ha bisogno di innesti di novità e diversità?
Perché non immaginare un Erasmus interno, portando 100.000 giovani del sud a studiare al nord e 100.000 giovani del nord a studiare al sud?
Perché non spostare incentivi e detrazioni dalla proprietà della casa, che vincola alla immobilità, all’affitto che invece aiuta la mobilità territoriale e lavorativa

Dobbiamo liberare la società italiana, sprigionare energie, non proteggere rendite di posizione.
Offrire opportunità, non solo tutele.

Abbiamo un grande e ricco dibattito, dentro Area Democratica, sul tema del lavoro, e questi giorni serviranno per approfondirlo, anche tecnicamente.

Abbiamo proposto, tutti d’accordo, interventi urgenti: sostenere con la detassazione i redditi medio bassi dei lavoratori e dei pensionati. Estendere gli ammortizzatori sociali, assegno di disoccupazione a tutti i lavoratori colpiti dalla crisi.

Ma non basta tamponare.
Occorre pensare al dopo, a come vogliamo che sia il mercato del lavoro del futuro. E qui siamo più divisi tra noi.

Io vorrei solo limitarmi a dire una cosa: attenzione a non fare una discussione datata, parlando di un mondo che non c’è più, distinguendoci tra noi su sul tipo di braghe da mettere a chi non vuole proprio più indossarle.

Oggi il sogno di un ragazzo non è più quello di suo padre: il posto fisso, identico per tutta la vita, tranquillo nello stesso luogo.
E non parlo solo dei livelli alti. Sia un ricercatore universitario che un giovane cameriere oggi, a differenza dei loro genitori, sognano molto di più di loro di cambiare nel corso della vita lavoro e città.

Vogliono vivere una vita dinamica, vogliono opportunità oltre che garanzie e tutele.

E noi invece parliamo solo di queste. Tipologie contrattuali, regole, protezioni ma sembriamo incapaci di capire cosa desiderano per il loro futuro.

Poi discuteremo delle norme ma prima dobbiamo accordarci sui principi ispiratori. E io penso che un partito riformista al passo coi tempi debba pensare a un mondo del lavoro in cui esiste una base di garanzie universali per tutti, anche oltre la distinzione lavoro dipendente e autonomo, e poi lascia un grande spazio all’autonomia contrattuale.

Base comune di tutele su rapporto di lavoro, previdenza, ammortizzatori sociali, salario minimo, ma poi libertà e dinamicità nelle tipologie contrattuali.
Flessibilità come opportunità, non come condanna alla precarietà e alla paura del futuro.

Anche qui dobbiamo essere capaci di fare battaglie giuste senza chiederci troppo se ci costeranno in termini di consenso, se verranno capite dai nostri tradizionali mondi di riferimento, se sono troppo moderate o troppo di sinistra.

Sono parametri di valutazione vecchi, che condizionano la nostra capacità di innovare e che non esistono più nella testa degli elettori ma residuano solo nel modo di pensare di troppi nei gruppi dirigenti.

Scegliamo battaglie giuste senza chiederci come classificarle secondo le categorie ideologiche del 900.

E diciamo dei sì e dei no, senza paludati detti e non detti.
Diciamo cose chiare con un linguaggio che la gente capisca.

Questo vogliamo: un Pd capace di dire sì, sì, no, no, senza pensare se una cosa è troppo moderata o troppo di sinistra.

Si all’acqua pubblica, sì a un referendum che, ben al di là dell’effetto tecnico dei quesiti, rappresenta una grande battaglia culturale per la difesa dell’acqua come bene pubblico, prezioso e limitato, da sottrarre alle sole logiche del mercato e del profitto.

No all’anzianità e sì al merito e ai risultati come criteri per gli avanzamenti di stipendio e di carriera.

Sì a far pagare più tasse alle imprese che inquinano e meno a quelle che investono in ricerca

No al nucleare, senza ambiguità, per ragioni economiche e sì invece a quella che dovrebbe essere la naturale vocazione italiana per le energie rinnovabili.

Si a una società in cui l’immigrazione e l’integrazione diventano un modo di preparare i giovani al mondo multietnico in cui dovranno crescere e invecchiare.

No all’immobilità di un sistema di protezioni sociali che tutela i più anziani ma abbandona i giovani, li priva di futuro e sì quindi ad un innalzamento dell’età pensionabile, prova di solidarietà e non di egoismo nei rapporti tra generazioni.

Si a una politica che recupera il senso etico di alcune battaglie, indipendentemente dagli interessi che toccano e da come vengono lette politologicamente.

Non so se è troppo di sinistra, ad esempio, pensare ad una moratoria nell’acquisto di sistemi d’arma da parte del nostro governo. Ma credo che in un frangente come questo di gravissima crisi sociale, nel quale si fatica a racimolare le risorse per lenire la sofferenza di centinaia di migliaia di persone, sia francamente incomprensibile, e direi anche oltre la soglia delle cose moralmente accettabili, spendere in armi da guerra.
10 miliardi in tre anni, hanno previsto.

Sono solo alcune piste di discussione.

Ciò che dobbiamo sapere è che la strada che dobbiamo cercare insieme non può che essere quella del cambiamento, non della conservazione, se vogliamo essere fedeli all’impegno che abbiamo assunto quando abbiamo detto che saremmo stati un partito nuovo, nato per ricostruire la coscienza civile di questo paese, per liberarlo dalla conservazione e dalla paura.

Questo è il ruolo di Area Democratica.

Non una vecchia corrente, nata per tutelare i propri aderenti nella vita interna, ma una moltitudine di persone, culture, sensibilità che sa che la propria missione è quella di tenere il Partito Democratico il più possibile vicino all’idea originaria.

Incontro anch’io in giro disillusione e stanchezza. Qualche volta anche rabbia per un disegno così entusiasmante che sembra ripiegato su se stesso così in fretta.

Vorrei che tutti noi dicessimo a quelle persone che siamo appena all’inizio, che il partito è appena nato e dovrà durare decenni, che la vita politica, come la vita, è fatta di vittorie e sconfitte, di gioie e amarezze.

Ma non possiamo fermarci. A noi lo impedisce quel milione di persone che a noi ha affidato le speranza in un partito diverso e in un’Italia migliore, abitata da italiani nuovi.

Qualche giorno dopo le primarie ho ricevuto, tra le centinaia di messaggi pieni di delusione e di affetto, il biglietto di una ragazza, una delle tante volontarie che hanno affrontato con noi la scommessa del 25 ottobre.

C’era scritto: abbiamo visto la stella ma non ci abbiamo creduto.

Anche per lei non possiamo fermarci.

Anche per lei dobbiamo alzare lo sguardo e riprendere a camminare

Ferraresi internazionali

Internazionale pianta un albero per ogni abbonato nuovo o che rinnova.
Gli alberi di Internazionale cresceranno in Niger, a 150 chilometri dalla capitale Niamey, e faranno parte di una foresta di otto milioni di alberi che nascerà in Africa entro il 2015. Anche io con questa modalità, alcune settimane fa ho contribuito a piantare 25 acacie .
Ah dimenticavo...la società che li ha supportati nel progetto è di Ferrara.

Dopo Ulisse e Pitagora


Anche Area Democratica a Cortona

03/05/10

The same, but more

“Roadmap 2050. Practical guide to a prosperous low carbon Europe”, questo il titolo del lavoro curato dall’istituto di ricerca economica McKinsey e commissionato da European Climate Foundation (ECF), vuole valutare il percorso post-2020, considerando comunque la Direttiva per gli obiettivi 2020 come una pietra miliare per questo cammino. Ed è proprio per questo motivo che questa roadmap al 2050 va intrapresa subito, anche per ridurre sensibilmente i costi complessivi.
In sintesi, il rapporto che potete scaricare qui conferma che è impossibile riuscire a ridurre dell’80% le emissioni di gas serra al 2050 (in base ai livelli del 1990) senza una pressoché completa “decarbonizzazione” del settore della produzione elettrica, continuando però a soddisfare la domanda e gli standard dei servizi energetici.
La chiave della riuscita di questo sviluppo è nell’aumentare e rinnovare la potenza della trasmissione, con diverse migliaia di chilometri di nuove infrastrutture interregionali, un aumento di almeno un fattore 3 rispetto ai livelli odierni. Da questo tipo di pianificazione delle reti dovrà essere incluso un forte avanzamento tecnologico delle reti di distribuzioni locali, delle smart grid e dell’utilizzo dell’information technology per la loro operatività. Come si afferma nel rapporto, la sfida non è tanto tecnologica, ma richiede una maggiore intensità di investimenti e una forte spinta nella realizzazione di impianti a basso contenuto di carbonio. Il motto è “the same, but more”.
Via Qualenergia.it

02/05/10

Sosteniamo la associazione "Verità per Denis"

Si è costituita l'Associazione "Verità per Denis". Lo scopo principale è quello di raccogliere dei fondi per affrontare le spese relative all' apertura di un nuovo processo. Molte sono le possibilità dopo 20 anni di far luce su una triste vicenda che forse è stata chiusa troppo in fretta con l'ipotesi del suicidio di Denis.
Molti non hanno mai creduto al suicidio...e noi siamo d'accordo con queste persone! E' per questo che sono vicino alla famiglia in questa battaglia ! E' per questo che vi chiedo di dare il vostro contributo sul CONTO BANCO POSTA 2349417
Coordinate IBAN IT45C0760113000000002349417
INTESTATARI Bergamini Domizio e Bergamini Donata

Un partito da rispettare


C'è un vecchio leone, se ne sta sdraiato tutto il giorno a riscaldare le ossa al sole. I ragazzini screanzati gli tirano le pietre e i torsoli di mela. Gli impiegati si travestono da cacciatori e si fanno la fotografia col piede sulla sua groppa. I pagliacci lo sfottono. Anche le ragazze ridono delle chiazze vuote nella sua criniera. E' così stanco che fatica perfino a scacciare le mosche che gli passeggiano sul muso. Ed ecco che, una volta che stanno proprio esagerando, e gli tirano la coda e le attaccano i barattoli, quello alza la testa, apre l'occhio buono e - ruggisce. Un ruggito vero, o quasi. Poi, divertito dal fuggi fuggi generale, si rimette giù e sogna la foresta.
Volevo dire che mi è piaciuto parecchio l'altra sera Bersani, ad Annozero.
(Adriano Sofri su facebook)

01/05/10

Il nucleare del Governo è improponibile

Centrali “vecchie” di terza generazione con problemi di sicurezza. Nessuna terzietà per la nascente Agenzia sicurezza nucleare. Conflitti fra controllori e controllati, nessuna politica di coinvolgimento del sistema delle Regioni in un progetto serio per riavviare la ricerca e stabilire le tappe di un percorso sicuro e sostenibile.
La mia analisi sul nucleare nell'articolo su Idemocratici
E anche sotto


Introduzione
La scelta del Governo in materia energetica rischia di allontanare l'Italia dalle scelte di fondo dell'Europa in materia di politica energetica: infatti pur dichiarando un impegno sulle fonti rinnovabili e sulle politiche di implementazione del risparmio e dell'efficienza energetica, il Governo tende a sospingere l'Italia in tutt'altra direzione, con scelte che ipotecano il futuro energetico del Paese per i prossimi 40 o 50 anni, puntando come scelta prioritaria sul "nucleare" di terza generazione prima con l'accordo con i francesi e in questi giorni annunciando, tra l'altro in occasione dell'anniversario della tragedia di Cernobyl, un accordo italo-russo che se da un lato promuove uno scambio riguardo alla ricerca dall'altro inquieta perché non dice con chiarezza quale ruolo i russi avranno circa la costruzione delle eventuali centrali in Italia.

Una scelta sbagliata
Una scelta che noi riteniamo fuori tempo massimo e del tutto unica nel mondo occidentale. Un conto è riammodernare impianti nucleari o costruire nuove centrali in quei Paesi che hanno una struttura adeguata di ricerca e di controllo ormai trentennale (USA, Francia), un conto è partire da zero e costruire centrali di una generazione che è a fine vita.

Le differenze con l'estero
Senza portare considerazioni di carattere ideologico, tra l'altro a mio parere assolutamente pertinenti, vorrei fare alcune considerazioni più di merito per dimostrare che la scelta del Governo è pericolosa e attuata più per compiacere la grande impresa (ENEL, ANSALDO, FINMECCANICA, etc) che per reali necessità del Paese.
Parto facendo alcune considerazioni tratte dalla lettura di un libro di Gwyneth Cravens, giornalista statunitense :"Il nucleare salverà il mondo" L'autrice da sempre convinta oppositrice del nucleare, si persuade che è arrivato il momento di andare oltre i pregiudizi che accompagnano questa tecnologia, e insieme a uno dei massimi esperti americani in materia ripercorre con il lettore passo passo l'intero ciclo di vita dell'uranio. Seguendola in questo lungo viaggio che va dalle miniere dove l'uranio viene estratto ai laboratori in cui i reattori sono progettati e testati, dalle centrali dove l'energia viene prodotta ai più remoti siti di stoccaggio in cui le scorie radioattive vengono conservate, scopriamo che forse il nucleare può aiutare ad affrontare il tema dei cambiamenti climatici.
Proprio la complessità della struttura di controllo degli Stati Uniti, dei laboratori di ricerca e del sistema in generale evidenzia quanto questo contesto sia indispensabile per il sicuro funzionamento di questi impianti. La mancanza in Italia di una situazione analoga, ma anche lontanamente simile, mi ha convinto che la proposta che il Governo ha presentato è pericolosa e largamente insufficiente a garantire quelle condizioni minime di sicurezza per lo sviluppo di una tecnologia così complessa.

Nessun vantaggio per l'economia
Altre poi sono le questioni di merito che Federico Testa, responsabile PD energia, ha evidenziato e che riporto condividendole.
Intanto nessun approfondimento -doveroso- è stato fatto in merito a ciò che questa scelta può comportare per il funzionamento del mercato che, a fatica, è stato costruito in questi anni nel settore dell'energia elettrica, mercato che corre il rischio di essere pesantemente messo in discussione da un approccio che non consideri -magari per proporre idonee soluzioni- le difficoltà che possono nascere nel momento in cui si ipotizza che il 50% del mercato abbia prezzi che non si determinano nel mercato stesso, ma sono fissati dal potere politico. .
Dire che "la costruzione e l'esercizio degli impianti nucleari sono considerate attività di preminente interesse statale" (art. 4) è solo il primo passo verso un nucleare realizzato sotto la guida dello stato: il nucleare farà eccezione allo schema di mercato secondo cui funziona oggi il mercato elettrico. E' compatibile questa scelta con le direttive UE? In questo senso, il protocollo stipulato con la Francia, con cui di fatto si assegnano prioritariamente ad alcuni operatori i siti in cui costruire le centrali, può prefigurare scenari competitivi preoccupanti, e la stessa scelta di una tecnologia, quella EPR, rispetto alla quale noi italiani siamo stati sin qui sostanzialmente esclusi dal punto di vista della produzione «intelligente», lascia presagire un rischio elevato di colonizzazione tecnologica e di scarso coinvolgimento della nostra capacità di ricerca.

Questione di scorie
Non sono stati fatti passi in avanti per quanto riguarda l'individuazione del deposito di superficie: nel 2012 torneranno dall'Inghilterra e nel 2020 dalla Francia le scorie relative alle centrali chiuse a seguito del referendum del 1987, mentre siamo ancora intorno al dieci per cento di decommissioning effettuato. La credibilità di una scelta difficile e complessa come quella in esame si misura -come si è detto- anche dai primi passi concreti. La recente campagna per le elezioni regionali ha visto la gara dei candidati governatori a smentire la possibilità di localizzazione di alcunché di nucleare nelle loro regioni: in maniera bipartisan, è vero, ma forse con qualche responsabilità in più da parte di chi, come membro del Governo, aveva da poco approvato il corrispondente decreto. Ma nemmeno il Presidente del Consiglio si è risparmiato, in questi anni: l'anno scorso in occasione delle regionali in Sardegna, quest'anno in Puglia, con sistematiche dichiarazioni del tipo "nucleare sì, ma non qui", e il "qui" era di volta in volta diverso, a seconda di dove si stava facendo campagna elettorale....
A questo si aggiunga il dato, più puntuale, che nelle disposizioni recentemente approvate vi è un importante cambiamento rispetto alle proposte della Commissione tecnica nominata dal Ministro Bersani nel 2007: invece che affidare il compito di localizzare e realizzare il deposito a una Agenzia Pubblica (come avviene ovunque) si è pensato di far svolgere queste attività alla Sogin. Si può perciò parlare di "privatizzazione delle attività concernenti il trattamento e la custodia dei rifiuti nucleari" perché Sogin è una società "privata" anche se oggi è totalmente posseduta dal Tesoro (ma si è parlato a lungo -da parte del Governo- di fare entrare nel suo capitale Finmeccanica o Ansaldo o anche soci privati). E' invece necessario che, insieme all'assoluta chiarezza sulla destinazione del combustibile irraggiato e dei rifiuti, così da dare garanzie che si è pensato alla chiusura del ciclo e non si lascino eredità pesanti o almeno non valutate alle generazioni future, chi si occupa dei rifiuti sia preoccupato unicamente della sicurezza e della protezione della popolazione. Un soggetto che produce rifiuti nucleari, che abbia obiettivi di profitto e che non sia in grado di garantire di occuparsi dei rifiuti per qualche secolo desta preoccupazioni. Il fatto che a Sogin venga affidato in esclusiva anche in futuro il compito di smantellare gli impianti (e forse anche di partecipare alla costruzione dei nuovi) rende ancora meno accettabile la soluzione prevista. Vi sarebbe infatti un potenziale conflitto di interesse tra un soggetto che deve cercare di smaltire rifiuti al minimo costo e con utili e un soggetto che li deve ricevere e custodire con la massima sicurezza. Ed altre cose si potrebbero dire in termini di garanzie finanziarie, sulle quali vi è più di un'ambiguità su questo tema, nonché di costi e coperture assicurative.

E la sicurezza?
Un altro anello assolutamente debole dell'azione del Governo riguarda la Agenzia per la sicurezza .
Innanzitutto non è garantita la terzietà della struttura in quanto non si capisce perché un organo che ha funzioni fondamentalmente di controllo debba vedere due rappresentanti del Ministero dello Sviluppo economico, quasi a costituire una sorta di presidio di controllo dell'operato della agenzia stessa.
Nel passato con il passaggio della DISP (Direzione Centrale per la Sicurezza Nucleare e la Protezione Sanitaria dell'ENEA) all'ANPA (Agenzia Nazionale per la Protezione dell'Ambiente) 15 anni fa si era risolto il problema del controllore/controllato e si era raggiunto finalmente un alto grado di indipendenza dell'Ente di controllo che non era più collocato nella sfera del Ministero dell'industria ma in quella del Ministero dell'ambiente. Ora si vuol fare il percorso inverso, creare una nuova Agenzia per portarla nella sfera del Ministero dello sviluppo economico. Non vi è altro motivo. Non è irrilevante che sia proprio il Ministro dello sviluppo economico il regista dell'operazione.
La scelta di costituire la nuova Agenzia attraverso l'unione di 50 operatori di ISPRA, ex agenzia dell'ambiente APAT, (ex "nuclearisti" di APAT) con 50 persone di ENEA non risolverebbe il problema principale che è quello della forte carenza di personale giovane. L'età del personale che in ENEA ha una competenza nucleare, ancorché di esercente, non è diversa da quella dell'ISPRA, ed è molta avanzata.
Il Governo propone quindi l'istituzione di un'Agenzia di importanza fondamentale senza prevedere spese aggiuntive in tema di formazione e di assunzione di personale.
Una nuova Agenzia autonoma richiede unità di servizi (personale, amministrazione, servizi generali ecc.) per le quali non sarebbero sufficienti le poche persone di supporto amministrativo presenti nel Dipartimento Nucleare, Rischio Tecnologico e Industriale dell'ISPRA.
Non è chiaro, anzi non è proprio previsto se l'Agenzia opererà anche tramite strutture regionali. Oggi il sistema di allarme radiologico è molto capillare e diffuso e numerosi sono gli enti che se ne occupano. Vi sono alcune regioni (Piemonte , Emilia Romagna) che possiedono reti di allerta. Le professionalità che oggi sono incardinate nelle Agenzie regionali per l'Ambiente non è chiaro come si collocano rispetto al progetto presentato. Al solito così come è stato per la costituzione di ISPRA si sceglie una strada fortemente centralista e poco attenta alle autonomie regionali e locali.
Per diversi anni l'attività di controllo sarà ancora destinata al decommissioning e alla sistemazione dei rifiuti radioattivi.
Sarebbe impensabile far partire nuove centrali senza prima aver sistemato le vecchie e soprattutto senza aver realizzato le strutture necessarie per la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi.

Mai senza i cittadini
E' comunque evidente, così come più volte riportato da nuclearisti convinti, che un assetto del nostro sistema energetico basato sul nucleare può realizzarsi solo attraverso la condivisione con la larga parte dei cittadini di questa scelta. Il Governo invece, parla di siti di interesse strategico e pare intenzionato ad affidare alla neonata Agenzia per la difesa spa le gestione di tali luoghi.

Conclusioni
Non solo, penso che il nucleare in Italia sia difficilmente realizzabile ma penso anche che questa scelta non avvantaggerà il tessuto imprenditoriale del paese che è basato sulla piccola media impresa e non sulla grande industria. Il futuro per il Pd è nella green economy è in tutte quelle soluzioni che vedono nel risparmio energetico e nello sviluppo delle rinnovabili non solo una scelta indispensabile per una nuova via allo sviluppo ma anche la strada maestra per consentire alle imprese di uscire dall'attuale crisi economica