30/04/08

Sogni di centro-sinistra

MUHAMMAD YUNUS su L'Unità. L’inventore del microcredito e Nobel per la Pace, sogna di abolire la povertà. Perché l’utopia si avveri vuole convincere le imprese a «crescere» e impegnarsi per realizzare obiettivi sociali.
La povertà non è distribuita in modo uniforme, ma si concentra in alcune regioni del Sud come l’Africa subsahariana, l’Asia meridionale e l’America latina, dove milioni di poveri sono costretti a lottare per la mera sopravvivenza.Partito Democratico


Periodicamente si scatenano calamità naturali (come lo tsunami del 2004) che uccidono centinaia di migliaia di persone povere e vulnerabili. Il divario fra il Nord e il Sud globali, fra la parte più ricca e il resto del mondo non ha fatto che ampliarsi.
Alcuni dei paesi che nell’ultimo trentennio sono riusciti a sfondare sul piano economico hanno comunque dovuto pagare un prezzo molto pesante (...)

Ma questo notevole progresso ha anche aggravato le tensioni sociali. Nel perseguire una crescita economica impetuosa, le autorità cinesi hanno chiuso tutti e due gli occhi sull’inquinamento di aria e acqua prodotto dall’industria e, nonostante il miglioramento delle condizioni di tanti poveri, il divario fra chi ha e chi non ha niente è aumentato costantemente. Se misurata con un indicatore economico specifico come l’indice di Gini, la disuguaglianza nel reddito è oggi maggiore in Cina che in India. (...)

La sfida globale che la povertà rappresenta, tuttavia, è sotto gli occhi di tutti, e all’inizio del nuovo millennio tutte le nazioni hanno cercato di affrontarla. Nel 2000 i governanti di tutto il mondo si sono riuniti all’Onu per impegnarsi, tra l’altro, a ridurre della metà il numero dei poveri entro il 2015. Ma sono passati già sette anni e i risultati sono deludenti, al punto che quasi tutti gli osservatori concordano nel ritenere che gli «Obiettivi di sviluppo del millennio» non saranno raggiunti. Mi fa piacere sottolineare che in questo panorama, il mio paese, il Bangladesh, rappresenta una felice eccezione: sta operando con continuità nella direzione stabilita e si sta dimostrando in grado di dimezzare il numero di poveri entro il 2015.

Cos’è che non va? Come mai in un mondo in cui l’ideologia liberista non incontra più nessuna reale opposizione non basta il libero mercato a far uscire dalla povertà una parte così grande della popolazione mondiale? E se tante nazioni proseguono senza scosse nel loro cammino verso la prosperità, perché altrettante restano invece sempre più indietro?

La spiegazione è molto semplice. Il libero mercato, senza vincoli di sorta, così come è oggi concepito, non è pensato per affrontare i problemi sociali, anzi, può portare ad aggravare povertà, inquinamento e disuguaglianze e a diffondere malattie, corruzione e criminalità.

Sono un sostenitore convinto della globalizzazione, perché promuove l’espansione del libero mercato, supera le barriere nazionali con lo sviluppo del commercio internazionale e della libera circolazione dei capitali, e stimola i governi ad attirare nel proprio paese le multinazionali offrendo loro infrastrutture per lo sviluppo delle imprese, incentivi all’attività e vantaggi fiscali e normativi. Come impostazione economica generale, la globalizzazione è in grado, sulla carta, di garantire ai poveri una quantità di benefici superiore a qualsiasi altra strategia. Però, abbandonata a se stessa, in assenza di principi guida e di controlli, può anche essere devastante.

Mi piace paragonare il commercio mondiale a un’autostrada con cento corsie che solca la superficie del globo. Ma se questa autostrada rimane senza pedaggio, senza semafori, limiti di velocità, limiti di ingombro e perfino senza le linee di separazione fra le corsie, essa verrà rapidamente occupata dai tir provenienti dai paesi con le economie più potenti. I veicoli più piccoli, come i camioncini dei contadini o i carretti a buoi e i risciò a piedi del Bangladesh saranno inesorabilmente espulsi.

Perché tutti possano trarre vantaggio dalla globalizzazione è necessario un buon «codice della strada», servono segnali e semafori e ci vuole una politica del traffico ben definita. La regola «il più forte piglia tutto» va sostituita da altri assunti capaci di garantire anche ai più poveri un posto sull’autostrada, altrimenti a controllare il commercio mondiale sarà l’imperialismo finanziario.

Anche a livello regionale, nazionale e locale i mercati hanno bisogno, in modo del tutto analogo, di regole e controlli che salvaguardino gli interessi dei più deboli, altrimenti i ricchi riusciranno facilmente a piegare le condizioni economiche a proprio esclusivo vantaggio. Gli effetti negativi di un capitalismo monolitico e senza regole sono ben rintracciabili anche nella cronaca quotidiana, che ci fa vedere le multinazionali spostare i propri stabilimenti nei paesi più poveri del mondo dove possono sfruttare liberamente forza lavoro a basso prezzo (compresi i bambini) e dove trionfano promozioni commerciali e campagne pubblicitarie ingannevoli di prodotti potenzialmente pericolosi o semplicemente di cui non abbiamo un reale bisogno.

Ma soprattutto sono evidenti nell’esistenza stessa di interi settori economici che semplicemente prescindono dalla presenza dei poveri, come se metà della popolazione mondiale non esistesse nemmeno. Sono i settori che si occupano della vendita di merci di lusso a gente che non ne ha un reale bisogno, solo perché così sono possibili profitti maggiori.

Io credo nel libero mercato come fonte di libertà e di nuove idee per tutti, non come strumento della decadente architettura economica progettata per una ristretta élite. In America del Nord, Europa e parte dell’Asia, i paesi più ricchi hanno potuto trarre enormi benefici dall’energia creativa, dall’efficienza e dal dinamismo generati dal libero mercato. Io ho speso tutta la mia vita nel cercare di garantire quegli stessi benefici anche agli esseri dimenticati dal mondo, a quegli strati estremamente poveri dei quali gli uomini d’affari e gli economisti non tengono mai conto quando parlano di mercati. L’esperienza mi ha insegnato che il libero mercato è uno strumento potente e utile anche per affrontare problemi come la povertà globale o il degrado ambientale, ma solo a patto che non sia posto esclusivamente al servizio degli obiettivi finanziari dei soggetti economici più ricchi.

Il capitalismo è un sistema sviluppato solo a metà
Il capitalismo concepisce gli uomini come esseri a una sola dimensione, preoccupati esclusivamente di perseguire il massi mo profitto. Anche la nozione di libero mercato, nella sua accezione comune, si basa su questo modello di essere umano unidimensionale.
Infatti, la comune teoria del libero mercato sostiene che ciascuno può contribuire nel modo migliore possibile al bene della società e del pianeta solo se si preoccupa esclusivamente di cercare il massimo dei vantaggi per sé.

Quando i sostenitori di questa teoria vedono in televisione solo cattive notizie, invece di chiedersi se sia proprio vero che la ricerca del profitto è una panacea universale, sono subito pronti a mettere da parte ogni dubbio e a dare la colpa di tutto ciò che di male succede nel mondo a una qualche “violazione della concorrenza”. La loro mente è allenata a dare per scontato che da un sistema di mercato veramente libero e ben organizzato non possano scaturire cattive sorprese.

Io invece penso che se le cose vanno male la colpa non sia da cercare in un difetto di funzionamento del mercato ma molto più nel profondo, nel fatto cioè che la teoria corrente del libero mercato non funziona nella pratica perché si basa su un concetto inadeguato e troppo riduttivo della natura umana.

La teoria economica convenzionale, per ricoprire il ruolo di guida dell’impresa, ha escogitato quell’essere umano a una dimensione che è l’imprenditore. Lo ha isolato dal resto della vita, separandolo dalla sfera religiosa, da quella delle emozioni, da quella politica e da quella sociale, così che non gli resti che occuparsi di una sola cosa, la massimizzazione del profitto. In questo si farà aiutare da altri uomini a una dimensione che gli procureranno il denaro necessario. Per citare Oscar Wilde, si tratta di gente che conosce il prezzo di tutte le cose, ma il valore di nessuna.

La teoria economica ha insomma creato un intero mondo a una dimensione popolato esclusivamente da quelli che si dedicano al gioco del libero mercato e della concorrenza in cui il profitto è la sola misura del successo. Poiché siamo tutti convinti che la ricerca del profitto sia la via migliore per portare agli uomini la felicità, ecco che ci mettiamo a emulare con entusiasmo la teoria economica e facciamo ogni sforzo per trasformarci in esseri umani a una sola dimensione. Invece di produrre una teoria capace di «imitare» la realtà, noi facciamo violenza alla realtà perché scimmiotti la teoria.

Il mondo odierno è così ipnotizzato dal successo del capitalismo che nessuno osa mettere in dubbio la teoria che sta dietro a quel sistema.
In realtà le cose sono molto diverse. Le persone non sono entità a una sola dimensione, ma esseri sorprendentemente multidimensionali. Emozioni, convinzioni, priorità, schemi di comportamento formano una pluralità che richiama i milioni di sfumature cromatiche che si possono costruire a partire dai tre colori fondamentali. Quando diventano abbastanza famosi, scopriamo che anche i capitalisti sono animati da una molteplicità di interessi e di spinte diverse, ed è proprio per questo che figure emblematiche del sistema, da Andrew Carnegie ai Rockefeller fino a Bill Gates, a un certo punto della vita hanno tutte mollato il gioco della ricerca del profitto per occuparsi di obiettivi di più alta sostanza.

Sono proprio queste mille sfaccettature della nostra personalità a farci capire che non è detto che ogni impresa debba necessariamente uniformarsi all’esclusivo obiettivo della ricerca del massimo profitto, ed è qui che entra in scena il nuovo concetto di business sociale.

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