È la polvere nascosta sotto il tappeto. Da anni era atteso, infatti, l’intervento di messa in sicurezza e bonifica della falda superficiale nell’area ex Yard Belleli, a Taranto. In quei 36 ettari confinanti con l’Ilva, a partire dal 1981, la “Belleli offshore” ha svolto attività di sabbiatura, verniciatura e assemblaggio di elementi di piattaforme petrolifere. I fanghi sequestrati oggi provengono da lì, da quel sito di interesse nazionale che, stando alle indagini di caratterizzazione ambientale eseguite nel 2004, risulta contaminato pesantemente. Mercurio, fenoli, idrocarburi e soprattutto Ipa, in particolare benzo(a)pirene e benzo(a)antracene. Inquinanti che hanno reso necessario un programma di bonifica costato alle casse pubbliche 12 milioni di euro di fondi Fas. Soldi che hanno oliato, però, nei fatti, quello strano ingranaggio che ha sgravato Taranto per soffocare ancora di più la cugina Brindisi. In una località, tra l’altro, Autigno, già martoriata dalla presenza della discarica che accoglie i rifiuti di tutti e venti i comuni della provincia.
Secondo quanto accertato dal Noe, per oltre un mese, tra il 4 febbraio e il 6 marzo scorso, i fanghi sono stati smaltiti illecitamente in contrada Mascava e Chiusura Grande, distanti l’una dall’altra un paio di chilometri. Prima di essere sepolti, però, sono stati trattati, non si sa ancora se in tutto o in parte, in una piattaforma di recupero di Mesagne, la posizione dei cui titolari è ora al vaglio degli inquirenti. Proprio le analisi fatte eseguire presso un laboratorio tarantino dai gestori di questo impianto, tra l’altro, hanno dimostrato che i parametri di cromo totale e piombo superano i limiti di legge. Verità di cui non c’è traccia su un secondo referto, richiesto ad un laboratorio di Pomezia dalla ditta di autotrasporto. L’ incongruenza ha spinto i carabinieri a richiedere di ripetere gli accertamenti.
In ogni caso, tuttavia, quel materiale in quelle cave non poteva finirci. È, infatti, considerato idoneo al riutilizzo, ma solo per il ricolmamento di aree ad uso industriale con falda acquifera naturalmente salinizzata. È stato stoccato, invece, in piena zona agricola, tra l’altro soggetta a vincolo paesaggistico. Nel primo sito, ampio un ettaro, sono stati scaricati fanghi frammisti a conci di tufo, pezzi di calcestruzzo solidificato e altro materiale da demolizione. Sempre nella stessa zona, su un secondo lotto, è stata ricolmata un’area profonda due metri. Collinette alte altrettanto sono quelle a cui ha dato vita il materiale imbiancato, invece, in contrada Chiusura Grande.
È così che le cave dismesse continuano a trasformarsi in buchi neri voraci di veleni, inghiottitoi privilegiati per la contaminazione della falda. Una storia che nella bassa Puglia è la trama di un film che si ripete.
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