10/01/11

Il caso Fiat e il secolo asiatico (di Guido Tampieri)

Riporto un articolo di Guido in cui mi ritrovo perfettamente e che spero riteniate interessante:
"Comunque la pensiate sull’accordo Fiat sottoposto a referendum in questi giorni, a spingere verso la sua ratifica non è la modernità, né l’innovazione, né il bene comune, spesso evocati a sproposito da chi ha per far compiere sacrifici a chi non ha e lasciare le cose come stanno.
No, è la pura necessità: niente accordo, niente lavoro.
Se non vi piace la parola ricatto chiamate questa condizione costrittiva come volete, non sempre le parole sono la sostanza delle cose.
Patto leonino si definiva, nel diritto romano l’accordo nel quale una delle parti era in condizione di assoluta supremazia sull’altra.
Per avere il lavoro, bene preziosissimo in un’Italia tornata a livelli di disoccupazione da dopoguerra, i lavoratori devono accettare condizioni peggiorative.
Come i movimenti del gambero, quegli accordi rappresentano un passo avanti verso il passato.
La mancanza di alternative non li rende più desiderabili e giusti.
Le cose buone e giuste appartengono al regno delle libertà, non allo stato di necessità.
Di questo, io credo, sono consapevoli tutti i lavoratori, quelli orientati a dire si e quelli che si oppongono.
E’ un passaggio difficile e di tutto c’è bisogno fuorché di falsi moralisti che sentenziano al riparo dalla costrizione del bisogno.
Tornare indietro è difficile per tutti.
Nessuno come i ricchi, ironizzava J.K.Galbraith, possiede così spiccato il senso dell’ingiustizia.
Chi lavora in fabbrica, fa i turni, vive con 1.200 euro al mese e non sa se avrà la pensione non è un cittadino protetto, avvantaggiato come vorrebbe la spietata ideologia sociale liberista, non porta via niente ad un giovane senza lavoro perché nemmeno lui possiede molto più del suo lavoro.
Non è su di lui che si è spalmata la ricchezza prodotta negli ultimi 20 anni.
E’ andata a vantaggio di pochi, come mai era successo.
E ancora accade, dentro questa crisi prolungata che l’ossessione narcisista di chi governa ha impedito di riconoscere e affrontare.
E’ questo che, più di ogni altra cosa, ferisce la coesione sociale, offusca l’idea di bene comune.
Quello che abbiamo davanti è un disastro sociale: meno lavoro, meno reddito, meno tutele, meno opportunità.
La destra non fa una piega, questo è il suo mondo.
La sinistra non ha ricette per migliorarlo.
Il centro del mondo si è spostato.
Siamo entrati nel secolo asiatico.
Le logiche che orientano le decisioni dell’economia e della finanza sono cambiate e la politica assiste impotente.
La globalizzazione non porta con sé, come avrebbe voluto Kant, l’universalizzazione dei diritti.
Accade il contrario, le condizioni tendono ad allinearsi in basso.
Le imprese investono dove più conviene.
Per continuare a farlo qui cercano di recuperare produttività.


 
L’ “affaire Fiat” ci porta dritti al cuore di questa problematica, indesiderata condizione.
Che va affrontata senza demagogia e senza strumentalizzazioni politiche.
Ci vorrebbe l’impegno di tutti per districare la matassa.
Non quello del ministro Sacconi, col suo livore ideologico, il suo rancore determinato a chiudere i conti con la CGIL.
Non quello di Paolo Cacciari che, sul Manifesto, invita a boicottare i prodotti Fiat.
E’ difficile non concordare con l’impresa quando si propone di eliminare croniche disfunzioni e chiede garanzie sul rispetto degli accordi.
Negli altri Paesi, non parlo della Cina o del Brasile ma della Germania e degli Stati Uniti, quelle condizioni e quelle garanzie l’impresa le ha.
Ma è impossibile ignorare che ci sono nelle condizioni dettate dalla Fiat aspetti di una modernizzazione autoritaria inaccettabili per la nostra coscienza civile.
No, non si tratta di schiavismo come sostiene Vendola.
C’è, più propriamente, un peggioramento delle condizioni di lavoro, per di più di scarso rilievo ai fini del recupero di efficienza.
E c’è, questa sì grave, la negazione di un diritto alla rappresentanza sindacale che Marchionne non si può arrogare, che gli altri sindacati non dovrebbero accettare e sulla quale un Governo che si rispetti dovrebbe intervenire in veste normativa anziché compiacersene.
La pienezza della cittadinanza in fabbrica va garantita
Questi a me sembrano i termini.
Resta il dato di fondo, di cui ha parlato qualche giorno fa E. Morin : in questo ciclo dell’economia si è aperto un enorme problema democratico
Sta andando in crisi il rapporto fra capitale e democrazia.
Anche quella di tante imprese è una lotta per sopravvivere.
Grandi imprese e, soprattutto, piccole imprese, la sorgente del benessere.
Nell’economia della mobilità, il lavoro è il solo fattore rigido.
Incidere su di esso, sulla sua organizzazione può essere necessario.
Senza tuttavia perdere di vista il valore del lavoro e la dignità delle persone.
Quanto vale la loro vita?
Chi decide della loro vita?
Oggi più di ieri non sono i lavoratori a decidere.
Oggi più di ieri sono tornati merce.
Meno indispensabile, meno tutelata, meno costosa.
Per loro questo girone del mondo globalizzato è tutto nel segno del meno.
Anche l’attenzione della politica e della società.
Per farsi vedere devono salire sui tetti.
E’ finito, se mai c’è stato, il tempo della centralità operaia.
Ma così non va bene.
Il percorso di umanizzazione del lavoro intrapreso due secoli fa non può essere interrotto.
Non si costruisce la ricchezza né di un’impresa né di una nazione se le persone non ne sono partecipi.
Non è passato poi tanto tempo da quando si parlava di qualità totale e si diceva che un lavoratore soddisfatto, riconosciuto,gratificato si identifica meglio con la missione dell’impresa, porta un contributo di impegno più alto e qualificato.
Si lasci servire, dottor Marchionne, è ancora così.

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