Il rapporto “Shifting Gear: Policy Challenges for the next 50
Years” dell’Ocse mette il cambiamento climatico tra le principali cause
del quadro non certo ottimistico che traccia dell’economia mondiale.
Secondo l’Economics Department dell’Organizzazione per la cooperazione e
lo sviluppo economico, «nell’ipotesi di politiche immutate, i danni
all’ambiente dovrebbero continuare ad accumularsi.
Se
le politiche di riduzione delle emissioni inquinanti restano
inefficaci, le conseguenze economiche sempre più pesanti del degrado
dell’ambiente, dovute tra l’atro al cambiamento climatico, dovrebbero
ostacolare la crescita anche prima del 2060».Secondo l’Ocse «entro il 2060, le emissioni di gas serra raddoppieranno in rapporto al 2010 e i danni all’ambiente, causati per esempio dal calo della produttività agricola e dall’innalzamento del livello degli oceani, potrebbero far arretrare il Pil dell’1.5 % a livello mondiale e di oltre il 5% nell’Asia meridionale e del sud-est». Il rapporto avverte, inoltre, che «queste stime non tengono conto dell’impennata dei costi sanitari e delle perdite di produttività imputabili all’inquinamento locale in numerosi Paesi».
A questo va aggiunto che già il rapporto Ocse 2013 avvertiva come «i rischi di eventi climatici catastrofici saranno più elevati e l’aumento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera fino al 2060 causerà nuovi danni all’ambiente, e potenzialmente più gravi dopo il 2060».
Ma il rapporto dell’Ocse, pur non mettendo in discussione né il liberismo né la globalizzazione capitalista, segnala ancora una volta una crisi sistemica. Le sorti progressive e la spinta propulsiva del capitalismo così come lo conosciamo sembrano sfumare nei prossimi 45 anni: «La crescita economica mondiale dovrebbe rallentare e le ineguaglianze di reddito continueranno a crescere nel corso dei prossimi decenni», e la cosa non riguarderà solo i Paesi sviluppati. «L’invecchiamento delle popolazioni in numerosi Paesi dell’Ocse e il rallentamento progressivo dei tassi di crescita attualmente elevati nei grandi Paesi emergenti faranno passare il tasso di progressione annuale del Pil mondiale dal 3,6% nel periodo 2010-2020 a un tasso stimato al 2,4% nel 2050-2060».
L’Ocse lancia dunque un avvertimento preoccupante per un Paese vecchio e immobile come è oggi l’Italia: «L’innovazione e gli investimenti nelle competenze costituiranno i principali motori della crescita». Lo scenario Ocse getta anche una nuova luce sull’immigrazione: «La diminuzione delle differenze di redditi tra i Paesi avanzati ed emergenti comporterà un calo del numero dei candidati all’emigrazione economica nei Paesi avanzati. Al calo dell’immigrazione si aggiungeranno delle tensioni demografiche causate dall’invecchiamento. Entro il 2060, rispetto ai livelli attuali, questa doppia pressione potrebbe comportare una riduzione della manodopera del 20% negli Usa e del 15% nella zona euro».
Il rapporto sottolinea i cambiamenti di tendenza riguardo agli scambi commerciali e alla specializzazione industriale: «La quota degli scambi con e tra i Paesi emergenti aumenterà considerevolmente. L’adeguamento tecnologico e il miglioramento delle competenze aiuteranno i Paesi emergenti a sviluppare dei settori manifatturieri e delle attività di servizi a forte valore aggiunto. Di fronte a queste sfide, i decison makers dovranno dinamizzare i mercati del lavoro e dei prodotti, sostenendo allo stesso tempo l’innovazione, la produttività e il lavoro».
Il problema è come riuscire a farlo in un mondo in piena crisi ambientale e dove aumentano le ineguaglianze. Per L’Ocse «bisognerà mettere in atto delle politiche di redistribuzione efficaci, mettere risolutamente l’accento sull’uguaglianza delle chances e rivedere i meccanismi di finanziamento dei servizi pubblici, così come le strutture fiscali». Una sorta di quadratura del cerchio socialdemocratica, ma senza abbandonare, ma anzi espandendo, il liberismo mercantile globalizzato…
Il rapporto sottolinea che «la crescente interdipendenza economica renderà necessaria una cooperazione internazionale in settori quali la ricerca di base, i diritti di proprietà intellettuale, la politica di concorrenza e l’attenuazione del cambiamento climatico. La cooperazione sarà anche essenziale nel campo della fiscalità, soprattutto per lottare contro l’evasione fiscale delle imprese».
Ma è difficile fare questa rivoluzione mondiale senza mettere davvero in discussione le politiche economiche iperliberiste che ci hanno portato ad una triplice crisi, economica-ambientale-sociale, che anche l’Ocse ritiene destinata ad acuirsi. Un aspetto che certo non sembra però essere nei pensieri dell’Ocse, se il suo segretario generale aggiunto e capo economista Rintaro Tamaki – successore dell’attuale ministro dell’Economia italiano, Pier Carlo Padoan –, durante la presentazione a Tokyo del rapporto, si è limitato a dire che si basa su tre assi: «Sostenere una crescita forte, lottare contro l’aumento delle ineguaglianze di reddito e ridurre i costi del cambiamento climatico. Lo studio dimostra che siamo di fronte ad un paradosso della globalizzazione: i Paesi saranno più integrati che mai, ma potrebbe diventare sempre più difficile organizzare la cooperazione multipolare richiesta in un sistema multipolare più complesso».
Un paradosso per il quale le vecchie ricette non bastano, e che fa sembrare “provinciali” e già superate dalla crisi planetaria (presente e futura) anche tutte le buone intenzioni espresse in Europa e in Italia in questi giorni.
Umberto Mazzantini
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