Il costo sociale dell’inquinamento è un problema più che mai attuale, ma alla politica non interessa più un confronto serio sul tema
La recente scomparsa, a 103 anni di età, di Ronald Coase, premio Nobel per l’Economia, potrebbe stimolare a riprendere il dibattito, che fu vivace negli anni sessanta del Novecento, sull’economia ambientale, quando prese vigore sotto la pressione della contestazione ecologica; una delle tesi della contestazione era che “l’economia” era incapace di affrontare i problemi dei danni e dei costi ambientali. Alla neonata economia ambientale la Società Italiana degli Economisti dedicò la sua XIV conferenza annuale nel novembre 1973; fra i molti libri apparsi vorrei ricordare quello, ormai introvabile, di Gianni Cannata, “Saggi di economia dell’ambiente”, del 1973.
Alcuni studiosi ricordarono, allora, che il problema era stato trattato, già negli anni trenta del Novecento, dall’economista inglese Arthur Pigou (1877-1959) nei suoi scritti “sull’economia del benessere”. “L’ecologia” mostrava che ogni azione umana è importante sottolineare ogni azione umana “economica” ha effetti negativi sull’ambiente. Ogni azione umana consiste nel trasformare dei beni, fisici, materiali, spesso gratuiti, tratti dalla natura, in oggetti utili e in merci o servizi, vendibili, con inevitabile formazione di scorie e rifiuti, gassosi, liquidi o solidi, la cui dispersione nell’ambiente arreca danno a qualcun altro, esterno al processo di produzione. Talvolta viene danneggiata la stessa persona, il consumatore, che gode dei vantaggi dei beni materiali prodotti e che a sua volta, con i suoi rifiuti, inquina e danneggia qualcun altro, esterno alla sua “casa”. Il “danno” si traduce in costi, anche monetari.
Chi si ammala per i fumi di una fabbrica, la quale, lecitamente, produce scarpe, deve spendere soldi dal medico per curarsi; può l’ammalato chiedere un risarcimento al fabbricante di scarpe, risolvendo con qualche strumento del mercato “privato” questa diseconomia? Coase, negli anni sessanta, sosteneva di sì, in polemica con Pigou che invece sosteneva che la diseconomia avrebbe potuto essere sanata soltanto con un intervento “pubblico”.
Ad esempio “lo stato”, secondo Pigou, potrebbe dare dei soldi al fabbricante perché installi un filtro dei fumi, ma il costo di tale incentivo ricadrebbe sulle tasse pagate dai cittadini, inquinati e non inquinati; quelli direttamente inquinati pagherebbero più tasse ma spenderebbero meno soldi per il medico. Ma tutti gli altri pagherebbero una tassa per evitare al fabbricante di spendere i propri soldi per i filtri. Oppure lo stato potrebbero obbligare per legge (con divieti di inquinare) il fabbricante a mettere i filtri, il cui costo il fabbricante dovrebbe recuperare aumentando il prezzo delle scarpe o licenziando alcuni operai. La difesa della salute (dell’ambiente) in ogni caso comporta un aumento dei costi per gli inquinati e un intervento “dello stato”.
Secondo Coase, invece, l’inquinatore avrebbe potuto dare qualche soldo all’inquinato, o l’inquinato avrebbe potuto trasferirsi lontano dalla fabbrica; mediante accordi privati, nell’ambito dei due soggetti economici, delle due “imprese”, quella dell’inquinatore e quella dell’inquinato.
Come si comportano i governi reali? Di volta in volta applicano dei divieti di inquinare e costringono gli inquinatori ad affrontare costi per i filtri e i depuratori, oppure risarciscono l’inquinatore per le spese per i filtri; alla fine, in termini di soldi, ci rimettono (quasi) tutti. Il fatto è che in questi trasferimenti di ricchezza monetaria alcuni pagano di più, alcuni pagano di meno, alcuni ci guadagnano, a seconda del potere di pressione che ciascun soggetto ha sui governi che decidono divieti o incentivi; e chi ci guadagna qualcosa ha naturalmente più possibilità di far sentire i propri interessi, rispetto ai poveretti che pagano sempre.
Discorsi astrusi? Non direi. Un esempio ci viene proposto di questi giorni, per esempio con il lungo dibattito sull’acciaieria di Taranto; chi fabbrica acciaio guadagna soldi vendendo acciaio, ma generando fumi e sostanze nocive che costringono i cittadini, all’esterno della fabbrica, a spendere soldi per i medici; se lo stato obbliga il fabbricante a mettere filtri e depuratori, il fabbricante cerca di recuperare i maggiori costi o licenziando i lavoratori o chiedendo incentivi “allo stato”, cioè alle tasse dei cittadini, anche di quelli inquinati. Una proposta radicale sarebbe la chiusura della fabbrica inquinante, in modo da tornare ad avere aria respirabile, però con migliaia di famiglie senza salario.
Che fare? Purtroppo le ineluttabili leggi della fisica, della chimica, della biologia, cioè “dell’ecologia”, ricordano che il frutto dell’albero della tecnica è avvelenato. La felicità di possedere merci e benessere e servizi è pagata da un peggioramento della limpidezza e respirabilità dell’aria, della trasparenza e salubrità delle acque, dalla perdita della salute umana e anche della salute degli altri esseri viventi, di quella che viene chiamata biodiversità. Il problema dei governi non è quello, irrisolvibile, di far sparire i costi dei danni ambientali, ma di attenuare le differenze fra chi, dal produrre merci, guadagna pur inquinando e chi ci rimette molto, in salute, benessere e soldi. Un bel daffare; peccato che nel gran chiacchiericcio politico di questo non parli nessuno a chiare lettere.
Giorgio Nebbia
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