Cortona, 7 maggio 2010,
Relazione introduttiva di Dario Franceschini
Pochi giorni fa Ulrich Beck ha ricordato a tutti noi la regola fondamentale della società mondiale del rischio: non lasciare mai che un rischio globale passi senza sfruttarlo, poiché si tratta sempre di un’occasione di fare qualcosa di grande.
Beck parlava della Germania di fronte alla crisi europea. Ma quella regola vale più in generale.
Del resto, quante volte ci siamo detti, che dopo la grande crisi globale di questo fine decennio, nulla sarebbe stato più come prima?
Quante volte abbiamo ripetuto che saremmo usciti da questa tempesta profondamente cambiati.
L’economia, ma anche i modelli culturali, gli stili di vita, il modo di consumare e di rapportarci all’ambiente. Le relazioni sovranazionali e quelle tra comunità.
Insomma, ci siamo detti certi che quello che sarebbe uscito dalla grande crisi sarebbe stato un mondo nuovo.
Abbiamo davvero pensato alla crisi come ad una straordinaria opportunità di cambiamento
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Questa speranza era autorizzata e resa più concreta dall’apertura di una nuova stagione americana, con l’elezione di Obama alla Casa Bianca.
Dobbiamo chiederci, due anni dopo, cosa sia rimasto di quella speranza.
Le cose purtroppo non sono andate come speravamo ma c’è ancora tempo per trasformare i rischi in opportunità, se la politica saprà rischiare e guardare lontano.
L’opposto di quello che purtroppo sembra stia avvenendo in questo secondo tempo della crisi globale.
E’ legittimo farsi alcune domande.
Possono ancora riuscire i governi a dare una risposta a quella forte domanda di istituzioni sovranazionali capaci di dettare regole alla globalizzazione?
Ci si può rifugiare dentro i confini politici, in un mondo in cui non ci sono più i confini economici?
E’ possibile che alcune agenzie private americane di rating, con le loro valutazioni cambino il futuro di intere economie e di milioni di persone? E che questa avvenga perchè colmano un vuoto di istituzioni internazionali.?
Basti riflettere sulla crisi europea, sul vuoto di una vera dimensione sovranazionale, pagato di nuovo in questi giorni.
Basti pensare alla drammatica lentezza e incertezza con cui l’Unione Europea ha affrontato la crisi della Grecia, all’assenza di leader in grado di mettere a rischio anche la propria leadership in nome di un obiettivo nobile e lontano.
Purtroppo, ancora una volta la destra è apparsa più veloce e flessibile nel rispondere al cambio di fase.
Era già accaduto negli anni Ottanta e Novanta, quando il pensiero neo-conservatore e ultraliberista, fondato sul mito di una crescita infinita finanziata dal debito, ha dominato quella stagione, segnata dal predominio dell’economia sulla politica, dalla competizione sui mercati sempre più aggressiva, fino a travolgere limiti e regole.
Sono stati, non a caso anche nel linguaggio, gli anni della deregulation.
La destra, dobbiamo riconoscerlo, ha saputo leggere e interpretare meglio di noi quella fase della modernità.
Ha messo in campo un modello culturale che in un tempo post-ideologico, segnato dalla crisi dei grandi soggetti collettivi a forte identità, come partiti e sindacati, ha puntato tutto sulla dimensione individuale, a scapito della coesione sociale e della solidarietà.
La crisi globale ha messo in discussione molti degli assunti su cui si reggeva quella ipotesi. Ma il camaleonte è stato pronto a cambiare colore.
In un tempo che resta segnato dal conflitto e dominato da insicurezza e paura del futuro globalizzato, la destra ha trovato una sua nuova versione, rassicurante e difensiva, dentro gli stati e degli stati nel mondo globalizzato.
Offre protezione contro le paure del nostro tempo. Rinuncia a trasformarle in opportunità, rinuncia al ruolo della politica, che deve essere sempre quello di guidare i grandi cambiamenti, non di demonizzarli o sfuggirli per raccogliere consenso.
Ma il consenso, cinicamente, purtroppo lo incassa, e i progressisti invece non lo incasseremo mai se non proveranno a sfidare la destra sui valori, smettendo di inseguirla soltanto.
E anche la destra italiana si è andata riorganizzando su quella nuova versione rassicurante.
Dal berlusconismo eticamente anarchico alla ristrutturazione tremontian-leghista, che rielabora la tradizione in salsa padana e costruisce una rete di protezione fatta di chiusure e conservazione.
In tempo di crisi non c’è spazio per i buoni sentimenti: ognuno sia
padrone a casa sua.
Il messaggio è forte, molto più del tanto celebrato radicamento leghista.
E infatti la Lega vince perché è capace di mobilitare gli elettori attorno a parole d’ordine chiare ed efficaci anche là dove non è presente con una sua organizzazione territoriale.
L’avanzata in Emilia Romagna, in Toscana, e perfino nelle Marche e in alcune zone del Lazio ha questo segno: la forza brutale con cui si sostituiscono gli interessi ai valori, le paure alle speranze.
Questa trasformazione del profilo dominante della destra produce una frattura profonda.
Molto più profonda di quanto non abbiamo finora capito.
In questo senso lo scontro in atto nel Pdl non deve essere sottovalutato.
Non è soltanto una lotta di potere tra personalità ormai incompatibili. Vengono al pettine nodi intricati: l’unità nazionale, il tema di una lealtà costituzionale faticosamente conquistata nell’allontanamento dalle radici post-fasciste, l’impossibilità di ridurre la vita democratica di un partito ai diktat di un comandante in capo.
Gianfranco Fini pone questioni molto serie, alcune delle quali riguardano la sua storia politica e la sua credibilità personale. Altre la qualità e il futuro della nostra democrazia.
Per questo trovo stucchevole allungare la discussione sul come questo terremoto in atto a destra ci riguardi.
Perché è ovvio che non possiamo essere indifferenti o disinteressati.
Ma dovrebbe essere altrettanto ovvio che il nostro interesse non si misura sulla possibilità di fare di Fini un alleato.
Fini è e resterà un nostro avversario, ma assomiglia a quella destra costituzionale e europea di cui il paese avrebbe bisogno.
E lo aspetta un cammino difficile, perché il berlusconismo ha messo radici profonde in questi vent’anni e come tutti i fenomeni che hanno dentro pulsioni autoritarie, diventano più pericolosi nel momento del declino, non tollerano i dissensi.
Lo spettacolo deprimente di questi giorni, il degrado dei comportamenti di pezzi così rilevanti della classe dirigente del governo e della destra, sono i sintomi di un sistema di potere che sta crollando, travolto dal proprio sentimento di immunità e onnipotenza.
Ma, proprio per questo, le settimane e i mesi che ci aspettano saranno carichi di rischi e di tensioni.
Perché i colpi di coda finali sono sempre i più pericolosi, e noi dobbiamo impedire che vadano a segno.
Mi viene da sorridere quando ricordo le accuse che mi hanno fatto da segretario, che ci hanno fatto, anche dentro il partito, di troppo antibelursconismo.
Difendere lo stato di diritto, il parlamento, la costituzione, i principi di legalità, le intercettazioni come strumento per contrastare il crimine, difendere i valori più sani della società italiana non è antiberlusconismo: è il primo dovere del partito democratico, il debito che noi abbiamo nei confronti delle generazioni che ci hanno preceduto, quelle che ci hanno consegnato diritti e libertà da custodire, rinnovare e tramandare alle generazioni che verranno dopo di noi.
Adesso che quella stucchevole accusa è stata seppellita dal periodico riemergere della violenza verbale e istituzionale di Berlusconi, possiamo tutto, spero finalmente tutti, riconoscere che preparare l’alternativa significa, allo stesso tempo, prepararsi sui contenuti riformisti per tornare a guidare il paese e anche contrastare con durezza questa destra.
Ogni giorno, non una settimana sì e una no a seconda dei sorrisi e degli ammiccamenti ricevuti.
Difendere la democrazia e cambiare profondamente il paese.
La prima cosa è una condizione per poter realizzare la seconda, per poter portare avanti la missione attorno a cui è nato il Partito Democratico: abbattere barriere, paure, immobilismi, prudenze di un paese bloccato, vecchio, impaurito e cambiarlo profondamente.
Solo una ragione così forte ed esigente può sorreggere un’ambizione così alta, quella che ci ha spinto a superare vecchie divisioni e antiche contrapposizioni per farci nascere.
Il Partito Democratico o mantiene questa sua vocazione, fatta di coraggio e innovazione, o lentamente si spegne.
I partiti che ci siamo lasciati consapevolmente alle spalle, potevano stare assieme per la forza dell’organizzazione o per l’orgoglio di una storia comune, di una identità forte.
A un partito giovane e plurale, nato in una società senza le ideologie del 900, queste cose non possono più bastare per stare insieme.
Solo una missione ambiziosa e coraggiosa di cambiamento può farlo vivere.
Per questo non dobbiamo dimenticare mai di essere un partito nato per avere dentro le speranze e le attese della società italiana nel suo complesso, senza antichi ed esclusivi blocchi sociali di riferimento, senza delegare a nessuno la rappresentanza di interessi, ceti o segmenti elettorali, verso il centro o verso la sinistra.
Un partito nel quale questa pluralità non sia un insieme di recinti piccoli e grandi, ma una costante ricerca di una nuova sintesi culturale.
L’abbiamo detto tante volte durante le primarie e questa cosa diventa ancora più importante adesso: dentro il partito mai una identità deve prevalere sulle altre e le regole e lo statuto devono impedire che questo avvenga.
Non c’è nulla di più pericoloso del senso di estraneità. Nulla di più pericoloso che qualcuno non si senta più nella casa comune, ma ospite in casa altrui.
Il partito non è fatto da qualcuno che ha vinto, che concede generosamente il diritto di tribuna a chi ha perso.
Il partito è di tutti, di chi ha vinto e di chi ha perso insieme.
So che queste cose le pensano come noi Ignazio Marino e le persone che l’hanno votato, e per questo lo ringrazio di essere qua oggi, perché penso potremo fare molte cose insieme per il bene del Pd.
Dunque un partito di tutti.
Per questo lo abbiamo costruito con la nostra gente, attraverso le primarie, occasione unica per saldare la forza dei militanti e la speranza e le attese dei nostri elettori.
E per questo, voglio dirlo con molta chiarezza anche alla vigilia di possibili modifiche statutarie all’Assemblea del 21 e 22, le primarie per scegliere il candidato della coalizione con cui ci presenteremo alle prossime elezioni politiche, sono irrinunciabili.
Le primarie non sono uno strumento qualsiasi: sono un pezzo della nostra ragione sociale, sono un modo di interpretare l’esigenza di apertura alla società senza cui i partiti si rinchiudono e si rinsecchiscono.
Per questo non si può affidare al veto di uno qualsiasi dei partiti di una futura coalizione la possibilità o meno di fare le primarie: chi vuole stare in coalizione con noi deve sapere che alle primarie per la scelta del candidato comune noi non possiamo rinunciare e noi non rinunceremo mai.
Abbiamo lavorato per far nascere questo Pd e abbiamo difeso questa idea di partito nell’ultimo congresso.
Ci siamo impegnati nei territori, con le primarie e dopo, con la nascita di Area democratica, per evitare il pigro ritorno a un tranquillo passato.
Non è tempo di ordinaria amministrazione e di tranquillità.
Viviamo un tempo che richiede visione e coraggio.
Servono certo la macchina organizzativa, il partito solido, il radicamento.
Ma non basterà tutto questo, non basteranno il partito solido o la macchina organizzativa più potente possibile se non trasmetteremo il senso di una missione di cambiamento del paese per cui vale la pena spendersi, per cui vale la pena rischiare e mettersi in gioco.
Purtroppo dalle elezioni politiche del 2008 in poi, da quando è sembrato che si smarrisse la spinta propulsiva delle primarie del 25 ottobre e che inesorabilmente tornassero vizi e pigrizie, abbiamo perso grande parte di quelle energie fresche ed entusiaste, sia tra gli elettori che tra i militanti, che avevano creduto in un partito nato per cambiare tutto
Ci sono state due ultime fiammate di ritorno: nella campagna elettorale delle europee, aiutati dalla paura che tutto fosse inesorabilmente perduto, e nel confronto delle ultime primarie.
Ma sempre dentro un misto di rassegnazione e disincanto che, se non corretto presto, può diventare irreversibile.
E’ sbagliato dire che oggi nei nostri circoli è sempre più difficile trovare persone che non provengano dai Ds o dalla Margherita?
Se siamo qui, se scommettiamo ancora sul progetto originario così come lo abbiamo sognato, è perché siamo convinti che il Pd o è davvero un partito nuovo, capace di andare oltre la semplice addizione delle storie e delle identità precedenti, oppure è destinato ad un rapido tramonto
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Nessuno si avvicinerà entusiasta se gli spieghiamo che il nostro progetto per i prossimi anni è soltanto quello di sommare sigle e partiti di ogni tipo per vincere le prossime elezioni.
Dopo il congresso non ci siamo sottratti alle nostre responsabilità.
Abbiamo accettato di partecipare a quella che è stata definita una gestione plurale del partito, anche sulla base della consapevolezza delle difficoltà di fronte a noi.
E soprattutto convinti della necessità di evitare ad un partito ancora fragile quella malattia che ha rappresentato storicamente il virus più pericoloso per il centrosinistra: l’autolesionismo.
Abbiamo tenuto questa posizione con la più limpida lealtà, collaborando con la nuova segreteria, avanzando le nostre osservazioni critiche nelle sedi proprie del partito, mai offrendo spunti per polemiche esterne. Anche quando forse ce ne sarebbe stata ragione.
Con la stessa lealtà oggi diciamo che è necessario un cambio di passo non solo nella gestione, ma nel modo di essere del Pd.
Servono segni coraggiosi di rinnovamento dei gruppi dirigenti dove le cose sono andate male.
Prendo un esempio per tutti: il partito della Calabria.
Un partito dilaniato, che ha visto ridotti di due terzi in propri voti in due anni, già diviso nel nuovo Consiglio regionale, con militanti in fuga. Penso che servirebbe commissariare subito il partito regionale, con una personalità di grande autorevolezza, capace di ricostruire investendo su energie nuove.
Non si può far finta che non sia successo nulla, non si possono ignorare i segnali che i nostri elettori ci hanno dato in tutto il paese alle ultime regionali.
Abbiamo perso le elezioni. Non perché per poche migliaia di voti non abbiamo conquistato due regioni in bilico. Ma perché abbiamo registrato una grave emorragia di consensi in termini assoluti. Più di quattro milioni di voti dalle politiche del 2008, più di un milione dalle europee dello scorso anno. Siamo al punto più basso della nostra brevissima storia.
Non mettiamo questa grave sconfitta sul conto di nessuno, ma chiediamo che l’analisi della sconfitta sia rigorosa e approfondita e sgombri il campo ad alcuni equivoci pericolosi che hanno messo a rischio il progetto.
Non ci sono scorciatoie per risalire la china.
L’alternativa sarà possibile solo attorno ad un Partito democratico attrattivo e innovativo.
Non userei l’aggettivo sexy, che mi sembra più adatto alle categorie berlusconiane.
Direi semplicemente un partito capace di entrare in sintonia con quella parte del paese che crede nella possibilità di un futuro diverso.
In sintonia con quei milioni di Nuovi Italiani che hanno fiducia in se stessi e nelle potenzialità del proprio paese, che non vogliono rassegnarsi al declino, alla perdita di valori e di rigore morale, che non ne possono più di dividersi sul passato e su vecchi spartiacque ideologici.
Questo è il tempo di un riformismo coraggioso.
Perché senza coraggio non ci può essere cambiamento.
E sappiamo tutti che nessun cambiamento vero può essere indolore.
E mi chiedo: se non ora, quando verrà il momento del coraggio riformista?
Se non ora che siamo all’opposizione, che non abbiamo congressi, che non abbiamo il problema di tenere unita una coalizione o tenere in piedi un governo, che non abbiamo campagne elettorali vicine. Se non ora, quando?
Quando dimostreremo di voler cambiare davvero questo paese, la forza di scontrarci con poteri e interessi forti, di rimettere in discussione tutto, anche ciò che per i nostri mondi di antico riferimento è comodo e rassicurante?
Se non ora, quando?
La destra ha messo in campo la sua riconversione.
Di fronte alla crisi alimenta le paure e promette protezione.
Sappiamo che è una politica illusoria, senza prospettive, che tutelerà pochi e lascerà soli i più, che si fonda sull’idea di un nemico da cui difendersi, a costo di inventarselo.
E’ il conflitto la cifra che la contraddistingue: Nord contro Sud, garantiti contro non garantiti, anziani contro giovani.
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Eppure, nella sua falsità, è un messaggio tranquillizzante e molti hanno l’illusione di potersi trovare dalla parte di chi vincerà e sopravviverà.
E intanto crescono le ingiustizie, le disuguaglianze, le distanze tra ricchi e poveri. Ma di tutto questo non c’è percezione.
Allora noi dobbiamo avere la forza di sfidare apertamente questo inganno, questa politica illusionista.
Ma per farlo dobbiamo cambiare prima noi stessi.
Non possiamo dare l’impressione di essere quelli che giocano solo in difesa, nemmeno aspettando la possibilità di un contropiede, ma sperando solo in un autogol degli avversari che ci faccia vincere.
Noi difendiamo tutto.
Sempre battaglie nobili e giuste ma difendiamo sempre: la Costituzione, l’articolo 18, la stampa, l’autonomia della magistratura, i sindacati, il parlamento e così via.
Non dobbiamo rinunciare a queste battaglie, ma o riusciamo a spiegare che noi siamo nati non per difendere l’esistente ma per cambiare il paese o non avremo più con noi le truppe per vincerle, quelle battaglie nobili.
Il primo e più delicato banco di prova è il terreno istituzionale.
Sappiamo quanto sia difficile e stretta la strada delle riforme, e quanto inaffidabile il fronte dei nostri interlocutori, a cominciare dal presidente del consiglio, sempre oscillante tra la disponibilità al confronto e la tentazione del colpo di mano a secondo della convenienza del momento.
E tuttavia sappiamo anche che ammodernare e rendere più efficienti le nostre istituzioni è una responsabilità che abbiamo tutti di fronte al paese e al suo futuro. Un futuro che dobbiamo saper misurare oltre gli attuali equilibri contingenti.
In altre parole: non possiamo costruire il modello istituzionale che serve all’Italia in funzione del berlusconismo o dell’antiberlusconismo.
Partiamo da una altra domanda: come rendere più efficiente la nostra democrazia.
Oggi il problema non è più, come vent’anni fa, la stabilità del governo.
Oggi le questioni sono altre: il rapporto governo-parlamento è squilibrato a tutto vantaggio del governo, che attraverso i maxi emendamenti, la fiducia, le ordinanze di protezione civile, l’abuso di decreti, ha svuotato il parlamento.
Il problema che oggi il paese ha di fronte è quello di avere una democrazia che decide, ma che resti democrazia, garantendo la divisione e l’equilibro tra i poteri.
La nostra proposta à semplice, coerente con la storia costituzionale italiana, in grado di sfatare l’idea che solo l’elezione diretta può risolvere tutto.
5 punti:
1. Una sola camera che fa le leggi e dà la fiducia al governo.
2. Un senato federale e delle autonomie e una conseguente riduzione del numero dei parlamentari.
3. Più poteri di controllo per il parlamento, con corsie preferenziali per il governo e garanzie per l’opposizione.
4. Più poteri al Presidente del Consiglio nell’azione di governo ma accompagnati da una legge rigorosa sui conflitti di interesse.
5. Una legge elettorale che spinga al bipolarismo e che restituisca agli elettori il diritto di scegliersi gli eletti, tornando ai collegi uninominali.
Quindi, preciso meglio: no ad una legge elettorale come quella tedesca, che porti di fatto alla fine del bipolarismo ed al ritorno ad una stagione di maggioranze variabili e no ad un ritorno alle preferenze che, diciamolo con chiarezza, portano, inesorabilmente, a costi altissimi delle campagne elettorali con tutti i rischi di corruzione connessi, a differenza dei collegi uninominali che invece vogliamo.
Cambiare l’Italia, non difenderla dai cambiamenti.
Le parole della nostra cultura democratica sono grandi e impegnative.
Ma spesso è come se il loro contenuto fosse evaporato.
Vanno riempite di significato.
Vanno nutrite di idee nuove.
Vanno rese corrispondenti alle domande nuove, all’emergere di nuovi diritti, alle attese di nuove generazioni.
Dobbiamo chiederci, ad esempio, come sia potuto avvenire che la parola libertà sia pian piano diventata parola della destra.
Dobbiamo riappropriarcene.
Un giovane nel nostro Paese può sentirsi effettivamente libero?
Il suo destino, il suo futuro sono effettivamente nelle sue mani?
Il suo futuro dipende dalle sue capacità, dalla sua buona volontà? Dipende dal successo che avrà negli studi?
Dipende dalla sua intelligenza, dalla sua creatività?
Sappiamo che non è così, che drammaticamente non è così.
Sappiamo che la società italiana è sempre più bloccata.
Sempre più ingiusta. Sempre più prigioniera di privilegi, di protezioni ereditate, di incrostazioni che la rendono immobile da troppi anni.
Forse è addirittura inutile parlare di ascensore sociale, perché è come se ricchi e poveri, garantiti e non garantiti non abitassero più nello stesso edificio.
Salire è impossibile. Al massimo si può entrare. E si entra se si è figlio di…, nipote di…, amico di…
Se si fa parte di una cricca o se si è utili ad essa.
Questo è in fondo il modello sociale dell’Italia di Berlusconi: fai strada se sei spregiudicato, furbo e arrogante.
La nostra Italia deve essere diversa: dimostriamo ai giovani che l’arma per farsi valere è il loro talento.
Chiediamoci perché i nostri ragazzi, quelli che possono farlo, vanno a cercare all’estero lo spazio della loro crescita professionale?
E perché quando sono fuori dai nostri confini raccontano di aver trovato società vive, dinamiche, multietniche e di avere respirato per strada libertà e il futuro, non paure e tristezza come da noi?
Perché siamo una società bloccata, priva di mobilità sociale e territoriale.
I nostri giovani in molti casi hanno più talento dei loro coetanei di altre nazionalità.
Investiamo su di loro, sulla loro formazione. Facciamogli girare il mondo, creiamo le condizioni perché sia valorizzato chi merita.
Noi dovremmo puntare su tutto ciò che schioda l’immobilismo e crea aperture e mobilità.
Faccio solo alcuni esempi.
Perché non immaginare un anno di Erasmus obbligatorio all’estero durante il percorso formativo?
Perché non investire risorse per chiamare studenti stranieri in Italia, in particolare nelle Università del sud, che ha bisogno di innesti di novità e diversità?
Perché non immaginare un Erasmus interno, portando 100.000 giovani del sud a studiare al nord e 100.000 giovani del nord a studiare al sud?
Perché non spostare incentivi e detrazioni dalla proprietà della casa, che vincola alla immobilità, all’affitto che invece aiuta la mobilità territoriale e lavorativa
Dobbiamo liberare la società italiana, sprigionare energie, non proteggere rendite di posizione.
Offrire opportunità, non solo tutele.
Abbiamo un grande e ricco dibattito, dentro Area Democratica, sul tema del lavoro, e questi giorni serviranno per approfondirlo, anche tecnicamente.
Abbiamo proposto, tutti d’accordo, interventi urgenti: sostenere con la detassazione i redditi medio bassi dei lavoratori e dei pensionati. Estendere gli ammortizzatori sociali, assegno di disoccupazione a tutti i lavoratori colpiti dalla crisi.
Ma non basta tamponare.
Occorre pensare al dopo, a come vogliamo che sia il mercato del lavoro del futuro. E qui siamo più divisi tra noi.
Io vorrei solo limitarmi a dire una cosa: attenzione a non fare una discussione datata, parlando di un mondo che non c’è più, distinguendoci tra noi su sul tipo di braghe da mettere a chi non vuole proprio più indossarle.
Oggi il sogno di un ragazzo non è più quello di suo padre: il posto fisso, identico per tutta la vita, tranquillo nello stesso luogo.
E non parlo solo dei livelli alti. Sia un ricercatore universitario che un giovane cameriere oggi, a differenza dei loro genitori, sognano molto di più di loro di cambiare nel corso della vita lavoro e città.
Vogliono vivere una vita dinamica, vogliono opportunità oltre che garanzie e tutele.
E noi invece parliamo solo di queste. Tipologie contrattuali, regole, protezioni ma sembriamo incapaci di capire cosa desiderano per il loro futuro.
Poi discuteremo delle norme ma prima dobbiamo accordarci sui principi ispiratori. E io penso che un partito riformista al passo coi tempi debba pensare a un mondo del lavoro in cui esiste una base di garanzie universali per tutti, anche oltre la distinzione lavoro dipendente e autonomo, e poi lascia un grande spazio all’autonomia contrattuale.
Base comune di tutele su rapporto di lavoro, previdenza, ammortizzatori sociali, salario minimo, ma poi libertà e dinamicità nelle tipologie contrattuali.
Flessibilità come opportunità, non come condanna alla precarietà e alla paura del futuro.
Anche qui dobbiamo essere capaci di fare battaglie giuste senza chiederci troppo se ci costeranno in termini di consenso, se verranno capite dai nostri tradizionali mondi di riferimento, se sono troppo moderate o troppo di sinistra.
Sono parametri di valutazione vecchi, che condizionano la nostra capacità di innovare e che non esistono più nella testa degli elettori ma residuano solo nel modo di pensare di troppi nei gruppi dirigenti.
Scegliamo battaglie giuste senza chiederci come classificarle secondo le categorie ideologiche del 900.
E diciamo dei sì e dei no, senza paludati detti e non detti.
Diciamo cose chiare con un linguaggio che la gente capisca.
Questo vogliamo: un Pd capace di dire sì, sì, no, no, senza pensare se una cosa è troppo moderata o troppo di sinistra.
Si all’acqua pubblica, sì a un referendum che, ben al di là dell’effetto tecnico dei quesiti, rappresenta una grande battaglia culturale per la difesa dell’acqua come bene pubblico, prezioso e limitato, da sottrarre alle sole logiche del mercato e del profitto.
No all’anzianità e sì al merito e ai risultati come criteri per gli avanzamenti di stipendio e di carriera.
Sì a far pagare più tasse alle imprese che inquinano e meno a quelle che investono in ricerca
No al nucleare, senza ambiguità, per ragioni economiche e sì invece a quella che dovrebbe essere la naturale vocazione italiana per le energie rinnovabili.
Si a una società in cui l’immigrazione e l’integrazione diventano un modo di preparare i giovani al mondo multietnico in cui dovranno crescere e invecchiare.
No all’immobilità di un sistema di protezioni sociali che tutela i più anziani ma abbandona i giovani, li priva di futuro e sì quindi ad un innalzamento dell’età pensionabile, prova di solidarietà e non di egoismo nei rapporti tra generazioni.
Si a una politica che recupera il senso etico di alcune battaglie, indipendentemente dagli interessi che toccano e da come vengono lette politologicamente.
Non so se è troppo di sinistra, ad esempio, pensare ad una moratoria nell’acquisto di sistemi d’arma da parte del nostro governo. Ma credo che in un frangente come questo di gravissima crisi sociale, nel quale si fatica a racimolare le risorse per lenire la sofferenza di centinaia di migliaia di persone, sia francamente incomprensibile, e direi anche oltre la soglia delle cose moralmente accettabili, spendere in armi da guerra.
10 miliardi in tre anni, hanno previsto.
Sono solo alcune piste di discussione.
Ciò che dobbiamo sapere è che la strada che dobbiamo cercare insieme non può che essere quella del cambiamento, non della conservazione, se vogliamo essere fedeli all’impegno che abbiamo assunto quando abbiamo detto che saremmo stati un partito nuovo, nato per ricostruire la coscienza civile di questo paese, per liberarlo dalla conservazione e dalla paura.
Questo è il ruolo di Area Democratica.
Non una vecchia corrente, nata per tutelare i propri aderenti nella vita interna, ma una moltitudine di persone, culture, sensibilità che sa che la propria missione è quella di tenere il Partito Democratico il più possibile vicino all’idea originaria.
Incontro anch’io in giro disillusione e stanchezza. Qualche volta anche rabbia per un disegno così entusiasmante che sembra ripiegato su se stesso così in fretta.
Vorrei che tutti noi dicessimo a quelle persone che siamo appena all’inizio, che il partito è appena nato e dovrà durare decenni, che la vita politica, come la vita, è fatta di vittorie e sconfitte, di gioie e amarezze.
Ma non possiamo fermarci. A noi lo impedisce quel milione di persone che a noi ha affidato le speranza in un partito diverso e in un’Italia migliore, abitata da italiani nuovi.
Qualche giorno dopo le primarie ho ricevuto, tra le centinaia di messaggi pieni di delusione e di affetto, il biglietto di una ragazza, una delle tante volontarie che hanno affrontato con noi la scommessa del 25 ottobre.
C’era scritto: abbiamo visto la stella ma non ci abbiamo creduto.
Anche per lei non possiamo fermarci.
Anche per lei dobbiamo alzare lo sguardo e riprendere a camminare
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